30/05/2025 di Luca Marcolivio

Non solo Pma. Anche aborto, fine vita e unioni civili: tutte le ingerenze della Consulta sui temi etici

Una delle ultime sentenze della Corte Costituzionale, la 68/2025 dello scorso 22 maggio – ovvero quella che ha aperto alle “due mamme” in caso di procreazione medicalmente assistita all'estero – è stata soltanto l’ultima di una lunga serie di veri propri interventi a gamba tesa, con i quali il massimo organo giudiziario italiano ha portato avanti quelle che a parer nostro sono delle indebite ingerenze nei confronti della politica e del normale iter legislativo. In particolare sui temi etici.

Proprio su questioni come aborto, unioni civili, Pma e fine vita, infatti, la Consulta ha spesso fatto fughe in avanti anche e soprattutto per spingere le maggioranze di turno – alcune volte riuscendoci, altre volte no – a legiferare o comunque demolendo leggi già esistenti (vedi caso della n. 40/2004 sulla procreazione assistita). Assistiamo così ad una subalternità del potere legislativo al giudiziario, che, non essendo espressione diretta della volontà popolare, più che recepire un vero o presunto cambiamento socio-antropologico, lo impone a suon di sentenze ideologiche. Vediamo quali

Pma e Legge 40

Sulla procreazione medicalmente assistita, come già accennato, c’è stato in oltre quindici anni un vero e proprio smantellamento dell’originaria legge 40. Innanzitutto con la Sentenza n. 151 del 2009: la Corte dichiara incostituzionale l’art. 14, comma 2, della Legge 40/2004, nella parte in cui imponeva il limite massimo di tre embrioni da produrre in vitro e l’obbligo del loro impianto simultaneo. Secondo la Corte, tale limite «si pone in contrasto con la tutela della salute della donna, riducendo irragionevolmente le possibilità di successo del trattamento di procreazione medicalmente assistita, impedendo al biologo di selezionare, tra quelli formatisi, gli embrioni più idonei a svilupparsi in un feto e di crioconservare quelli in eccesso per un futuro trasferimento, e costringendo la donna a sottoporsi a nuovi interventi di stimolazione ovarica e di prelievo chirurgico degli ovociti. D’altra parte», si legge nella sentenza, «si evidenzia nella memoria di costituzione il rischio opposto, quello, cioè, di successo del processo di fecondazione, con possibile insorgenza di una gravidanza plurigemellare, che, a sua volta, comporta rischi per la salute della donna e del concepito».

Poi con la sentenza n. 162 del 2014 viene dichiarata l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa stabilito originariamente dalla Legge 40/2004. «La formazione di una famiglia, che include la scelta di avere figli, costituirebbe un diritto fondamentale della coppia, rispondente ad un interesse pubblico riconosciuto e tutelato dagli art. 2, 29 e 31 Cost.». Nella misura in cui, obiettivo della legge 40 è quello di ridurre la sterilità e l’infertilità nella coppia, vietare la fecondazione eterologa «recherebbe vulnus a detti parametri, perché discriminatorio ed irragionevole». La più recente sentenza n°69/2025 ha tuttavia confermato il medesimo divieto per le donne single. 

Con la sentenza n. 96 del 2015, invece, viene esteso l’accesso alla diagnosi preimpianto anche alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili. Viene così riconosciuto a queste coppie il diritto di evitare la trasmissione di gravi patologie ai figli. In questo caso, la Corte rileva «il mancato rispetto del diritto alla salute della donna. Senza peraltro che il vulnus, così arrecato a tale diritto, possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto».

Nello stesso anno, con il pronunciamento n. 229, viene dichiarato incostituzionale il divieto di selezione degli embrioni affetti da gravi malattie genetiche. La malformazione di tali embrioni «non ne giustifica […] un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani». In questa circostanza, la Corte ammette: «L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».

Infine la decisione di qualche giorno fa, con la quale è stata sostanzialmente riconosciuta la genitorialità alle coppie omosessuali femminili. La donna che non porta avanti la gravidanza (ottenuta tramite Pma ottenuta all’estero, con nascita in Italia) viene definita «madre intenzionale».

Fine Vita

Anche sui temi del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia la Corte Costituzionale ci ha abituato – ahinoi – a vere e proprie fughe in avanti, soprattutto con quella che fu – come vedremo – la storica sentenza sul caso di Dj Fabo. Ma prima ancora, già nel 2008, con la pronuncia n. 438 e in riferimento all’altrettanto famoso caso di Eluana Englaro, la Corte stabilisce il “diritto” al rifiuto dei trattamenti sanitari (anche salvavita) e la legittimità dell’interruzione delle cure, qualora il paziente lo manifesti espressamente, anche tramite terzi.

Circa un anno dopo, con la sentenza n. 253 del 2009, viene decretata la legittimità costituzionale delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat), spianando la strada alla loro approvazione legislativa, arrivata otto anni dopo con la legge 219/2017. La Corte stabilisce che il cittadino ancora dotato di capacità, in merito ai propri futuri trattamenti sanitari, può esprimere la propria volontà, purché questa sia libera, consapevole e «verificabile».

E si arriva, dieci anni più tardi, appunto, al caso Cappato-Dj Fabo. Con la purtroppo storica sentenza n. 242 del 2019, i giudici costituzionali dichiarano parzialmente incostituzionale l’art. 580 del Codice Penale, dunque escludendo la punibilità dell’aiuto al suicidio per persone che devono avere quattro requisiti, ovvero: essere affette da una patologia irreversibile; soffrire di sofferenze fisiche o psicologiche che reputano intollerabili; essere tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale; essere capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. Questa sentenza fu di una gravità particolare, avendo dato la stura a numerose iniziative legislative a livello regionale atte a legalizzare il suicidio assistito nell'ambito dei sistemi sanitari regionali: a tal proposito, va ricordato che la Toscana è, al momento, l’unica Regione ad aver approvato una simile normativa, laddove in Emilia-Romagna l'iter è in stand-by, mentre in Basilicata, Lombardia, Piemonte, Umbria e Veneto, il suicidio assistito è stato respinto.

La stessa Corte è poi tornata sul medesimo tema aperto con la vicenda di Dj Fabo con una successiva sentenza, quella n. 135 del 2024. Viene ribadita la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale come requisito essenziale per la non punibilità dell’aiuto al suicidio. Il riferimento è a trattamenti non necessariamente somministrati dal personale sanitario ma comunque fondamentali affinché il paziente rimanga in vita. Alla luce della già menzionata sentenza n° 242/2019, la Corte ritiene «irragionevole» la sanzionabilità del suicidio assistito.

Aborto

E sull’interruzione volontaria di gravidanza? Ebbene, anche su questo tema la Consulta iniziò a pronunciarsi molto tempo fa, addirittura anche prima della legge 194 del 1978. Già tre anni prima, infatti, con la sentenza n. 27 del 1975, dichiarò parzialmente incostituzionale l'art. 546 del Codice Penale, che puniva l'aborto anche nei casi in cui la prosecuzione della gravidanza comportasse un grave pericolo per la salute della madre. Fu stata una sentenza “apripista” che ha di fatto legittimato giuridicamente il concetto di “aborto terapeutico”, spingendo il Parlamento a colmare un vuoto legislativo portando così alla legge 194/1978 (poi confermata dal referendum del 1981). La svolta del 1975 avvenne anche sulla spinta di un cambiamento culturale, deformato dalla propaganda radicale, che trasmetteva il messaggio (falso) di un aumento esponenziale degli aborti clandestini: un fenomeno che, nell’ottica progressista, poteva essere attutito soltanto con una depenalizzazione della pratica.

Dopodiché, dopo oltre 35 anni, la Corte Costituzionale tornò in modo importante sulla questione aborto con la sentenza n. 126 del 2012 e in particolare in riferimento all’autorizzazione del giudice tutelare per l'interruzione di gravidanza da parte di una minorenne. In quell’occasione la Corte ha confermato che la minore può abortire anche senza informare i genitori, se ci sono motivi seri che lo sconsigliano. Il giudice tutelare può dunque autorizzare la gestante valutando solo la sua scelta, come infatti stabilito dall’art 12, secondo comma, della legge 194/1978. Tra le motivazioni: il «contesto socio culturale» è «profondamente cambiato, in quanto l’evoluzione del costume ha fatto sì che ormai una gravidanza fuori da quelli che un tempo erano i canoni sociali non è più avvertita quale grave fonte di discredito, tale da indurre la minore alle pratiche dell’aborto clandestino, pur di non informarne neanche i genitori». Al contempo «il fenomeno dell’aborto clandestino (lungi dallo scomparire, purtroppo) è comunque un fenomeno ormai circoscritto a tristi realtà di forte illegalità collegate allo sfruttamento della prostituzione e dell’immigrazione clandestina, e alla tratta di esseri umani, laddove si evita il ricorso alle procedure di legge non certo per impedirne la conoscenza ai genitori, ma per impedire che emergano tali situazioni di turpe illegalità».

Unioni civili

Infine, ma non per importanza, l’altro tema cruciale – ed etico – che ci interessa e che la Corte ha toccato è quello delle unioni civili, dunque con ovvie e importanti ricadute sulla famiglia e sulla società. Sono in particolare due – entrambe dello scorso anno – le sentenze più incisive su questo argomento. In primis la n. 66 del 2024, con la quale la Corte ha dichiarato incostituzionale l'art. 1, comma 26 della Legge n. 76/2016. Di conseguenza è ora previsto, per le coppie unite civilmente, la possibilità di sospendere gli effetti dello scioglimento automatico dell’unione civile per consentire la celebrazione del matrimonio nel corso del procedimento di rettificazione di sesso da parte di uno dei due partner. La sentenza, pur non equiparando formalmente unioni civili e matrimonio, introduce una possibilità di continuità giuridica tra i due istituti in caso di transizione di genere di uno dei partner. «L’individuo», motiva la Corte, «non deve essere altrimenti posto, in modo drammatico, nella condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità, di cui la perseguita scelta di genere è chiara espressione ed alla quale si accompagna l’automatismo caducatorio del vincolo giuridico già goduto, e la conservazione delle garanzie giuridiche che al pregresso legame si accompagnano, e tanto a detrimento della piena espressione della personalità».

Dopodiché, con la sentenza n.148 del 2024, i giudici costituzionali hanno dichiarato incostituzionale l’art. 230-bis, terzo comma, c.c., nella parte in cui non includeva il convivente di fatto tra i familiari dell'impresa familiare. Ha inoltre dichiarato incostituzionale l’art. 230-ter c.c., in quanto prevedeva una tutela inferiore per il convivente di fatto rispetto a quella garantita ai familiari. La Corte prende atto che «dall’evoluzione della società, della legislazione e della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, emergerebbe ormai che la famiglia va considerata sia nella versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso». Secondo i giudici «nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela e che con l’introduzione dell’art. 230-ter cod. civ».

 

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