05/02/2024 di Fabio Piemonte

In Danimarca i bambini con Sindrome di Down non possono nascere

In Danimarca ai bimbi con sindrome di Down viene impedito di venire alla luce. E in effetti il sistema sanitario scandinavo è stato uno dei primi al mondo a offrire lo screening prenatale della sindrome di Down a ogni donna incinta, indipendentemente dall’età o da altri fattori di rischio. Così quasi tutte le mamme in attesa scelgono di fare il test e ormai oltre il 95% di coloro le quali scoprono di aspettare un bambino con la Sindrome di Down poi scelgono di abortire. Pertanto, se nel 2019 sono nati 18 bimbi con tale sindrome, ciò è imputabile a un errore diagnostico o al fatto che è stato detto ai loro genitori che sarebbero state infinitesimali le probabilità di avere un bambino con un cromosoma in più.

«Se consegnassi a una mamma in attesa un elenco di tutto ciò che il suo bambino potrebbe incontrare durante la sua vita – malattie e cose del genere – allora chiunque si spaventerebbe!», osserva opportunamente Ann Katrine, sorella di Karl Emil, un giovane con sindrome di Down attualmente diciottenne. Eppure nel suo Paese si cerca, attraverso la propaganda ideologica, di far passare a tutti costi l’idea che per un bambino con sindrome di Down meglio sarebbe non nascere affatto, sia per la sua vita che per quella dei suoi genitori.

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Emerge dunque un paradosso che caratterizza nel merito la società danese, ossia da un lato è evidente il giudizio di un’intera società sulla vita delle persone con sindrome di Down categorizzate quali ‘vite’ indegne di essere vissute o di Serie B; dall’altro diventa difficile far tacere un forte senso di colpa per il quale, scegliendo in particolare l’aborto per i bimbi con sindrome di Down, i danesi non si sentirebbero all’altezza dell’immagine di se stessi come di una cultura e società inclusiva, secondo quanto evidenzia la ricercatrice Stina Lou.

Eppure la dignità di ogni essere umano sin dal grembo materno è inalienabile e non è graduabile, ossia non può essere declinata secondo criteri di ‘qualità della vita’. È quanto rileva Stephanie Meredith, direttrice del Centro nazionale per le risorse prenatali e postnatali dell’Università del Kentucky, raccontando un episodio che vale più di tanti proclami sui diritti umani. Durante una partita suo figlio ventenne assiste a un grave scontro fisico sul campo da basket tra la sorella e un altro giocatore, per cui la prima cade a terra attraverso un tonfo che lascia subito presagire il dolore fisico che ella stava provando. Prima ancora che Meredith presente sugli spalti potesse rendersi conto dell’accaduto, suo figlio è già saltato dalle gradinate prendendo in braccio la sorella. «Non era preoccupato di aver infranto le regole, né si preoccupava del decoro. Si trattava solo di rispondere prontamente e prendersi cura di lei», prosegue Meredith, la quale commenta di essere fiera di quel gesto di suo figlio più di tanti voti positivi, trofei di basket o lettere di accettazione al college.

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Dunque i genitori dovrebbero andar fieri non dei titoli e successi conseguiti dai figli, bensì della loro capacità di amare e di «prendersi cura di un altro essere umano». D’altra parte solo l’amore che accoglie ogni vita umana può arginare un sistema efficientista (questo sì davvero malato!) che arriva a giustificare un’ingiustificabile deriva eugenetica per la quale si sopprime la vita di chi è più fragile solo sul piano strettamente fisiologico in nome di criteri arbitrari, arrogandosi il diritto di giudicare aprioristicamente della qualità di vita di un altro essere umano alla stregua dei regimi totalitari.

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