30/10/2023 di Giuliano Guzzo

Il cambio di sesso porta più malattie cardiache, ecco lo studio

Il tormentone, ormai lo conosciamo, vuole il «cambio sesso» come un procedimento non solo opportuno, ma addirittura liberatorio per chi, diversamente, si troverebbe “costretto a vivere” ancora in un corpo che non riconosce più come proprio. Peccato che numerosi studi evidenzino invece fortissime criticità di salute proprio a danno di chi il «cambio sesso» lo intraprende e lo vive sulla sua pelle.

Illuminanti, a tal riguardo, le scoperte di una nuova indagine da poco pubblicata sull’European Journal of Endocrinology sulle conseguenze cardiache della riassegnazione sessuale. Sì, perché questa indagine mostra infatti come gli uomini con disforia di genere che si sottopongono a trattamenti con ormoni sessuali incrociati corrono un rischio significativamente più elevato – fino al 95% – di sviluppare malattie cardiache. Più precisamente, si è riscontrato che gli uomini che assumono estrogeni come mezzo di «assistenza medica per l’affermazione del genere» riscontrino il doppio delle probabilità di contrarre malattie cardiovascolari rispetto agli altri uomini e il 73% in più delle donne.

Anche le donne che assumono testosterone, in questa analisi, mostravano il 63% in più di probabilità di sviluppare malattie cardiache rispetto alle donne. «I trattamenti ormonali come gli estrogeni aumenteranno la massa grassa e ridurranno la massa corporea magra, e un aumento degli estrogeni è solitamente associato a un aumento del rischio di malattie autoimmuni e infiammazioni», ha sottolineato la dott.ssa Dorte Glintborg, autrice principale dello studio. Parole che dunque escludono una matrice sociale di quanto scoperto.

Del resto, sarebbe molto strano che le malattie riscontrate in queste persone transgender avessero una causa esterna, dato che parliamo d’uno studio condotto nella tollerantissima Danimarca, dove cioè le unioni gay furono riconosciute fin dal 1989, primato assoluto a livello mondiale per l’epoca. Un altro aspetto che render questo studio interessante, poi, è la sua ampiezza; esso si basa infatti sui dati di quasi 2.700 persone (2.671, per l'esattezza) tra i 20 e i 25 anni, confrontati con quelli di un gruppo di controllo di 26.700 persone.

Siamo dunque ben lontani dai campioni di poche decine di persone sui quali invece si basano, ormai da decenni, le ricerche che teoricamente sdoganerebbero, per esempio, le adozioni omogenitoriali; ricerche talmente deboli da essere state denunciate come tali, recentemente, perfino da Nature. Un altro motivo di interesse di questo studio deriva dal fatto che essa si colloca nell’ambito d’un filone della letteratura medica decisamente ricco e crescente. Va infatti nella stessa direzione di quanto scoperto dalla dottoressa Glintborg, per esempio, anche un’altra indagine sugli effetti collaterali degli interventi chirurgici di riassegnazione del sesso, in termini di tassi allarmanti di dolore post-operatorio, disagio durante i rapporti sessuali e problemi alla vescica.

Ancora, una nuova analisi effettuata in cliniche britanniche ha rilevato come la salute mentale di un terzo degli adolescenti sia peggiorata proprio per l’assunzione dei bloccanti della pubertà. Quale che sia insomma il profilo clinico e della salute considerato, la salute delle persone e dei giovani che affrontano il «cambio sesso» pare problematica e, sovente, perfino peggiorata. Ma perché allora la riassegnazione sessuale non viene denunciata come iter critico, anzi viene spesso perfino consigliata in quello che è noto come approccio affermativo alla disforia di genere?

Al di là di un piano ideologico – che esiste e che pure ha un suo peso - il sospetto, ma è anche più d’un sospetto, è che in tutto questo abbiano un enorme peso i soldi. Sì, perché «cambio sesso» muove centinaia di miliardi di dollari; e si prevede che nei prossimi decenni questo business esploderà letteralmente. Pecunia non olet, dunque. E pazienza se c’è chi ci rimette la salute.

 

 

 

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