18/07/2022 di Manuela Antonacci

La storia di Marie: costretta sulla sedia a rotelle e ostaggio della burocrazia, non ha mai perso la speranza

E’ una giovane donna di 36 anni, Marie, cittadina francese, rimasta folgorata dalle bellezze artistiche del nostro paese, al punto da scegliere di trasferirsi in Italia stabilmente. Per questo motivo 7 anni fa decide di aprire un’agenzia di viaggi a Roma. Ma la malattia strisciante che dall’età di 16 anni l’accompagna, la nevralgia del pudendo, si riaffaccia acutizzandosi a causa dello stress, al punto da costringerla su una sedia a rotelle, impedendole di spostarsi, di lavorare e di vivere. Ci ha raccontato la sua storia, fatta di difficoltà, ostacoli, ingabbiata da una burocrazia – quella italiana – piena di falle, ma anche di speranza. Una speranza che non le ha mai fatto pensare, neanche per un istante, a quell’assurda bugia che è l’eutanasia come alternativa di “dolce morte”.

Marie, che tipo di difficoltà le crea questa malattia?

«Mi dà problemi seri di deambulazione. Sono stata a letto diversi mesi e in seguito sono stata costretta a muovermi con la sedia a rotelle. Nessuno mi aiuta e tutto per me è difficile. Ho difficoltà persino a preparare i pasti e a fare la spesa. All’inizio mi hanno aiutata i vicini, ora faccio gli acquisti online, ma non basta: di fatto non ho ricevuto nessun aiuto né finanziario né umano»

Dove ha ricevuto le cure, in Francia o in Italia?

«Per sei mesi ho provato a curarmi in Italia, poi sono stata costretta a tornare in Francia per un periodo, perché lì ho ricevuto un trattamento migliore. All’inizio sono stata ricoverata all’Isola Tiberina, dove sono andata già con le idee chiare: ho parlato della nevralgia del pudendo ai medici, ma loro non mi hanno ascoltata, mi hanno fatto esami che non c’entravano nulla con la mia situazione. Sono uscita dall’ospedale piegata in due dal dolore. Nonostante tutto ho continuato sempre a lavorare, ma sono costretta a prendere la morfina più volte al giorno per poter contenere il dolore. Addirittura all’inizio, dovendomi abituare all’effetto della morfina che mi stravolgeva mentalmente e fisicamente, ero costretta a farne a meno tutto il giorno, aspettando di finire la mia giornata lavorativa, stringendo i denti per il dolore, finché arrivava la sera e potevo finalmente assumere la mia “medicina”».

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Nel personale medico che l’ha curata ha trovato un atteggiamento di empatia?

«Spesso sono stata costretta a gridare e a piangere per farmi ascoltare. Al pronto soccorso dell’Isola Tiberina ho dovuto insistere per vedere il neurologo e mi hanno fatto pagare l’ambulanza per trasportarmi in un altro ospedale. Arrivata al Gemelli ho ricevuto un trattamento disumano: al pronto soccorso non c’è modo per parlare con un’infermiera. Ma questo è niente: la cosa più incredibile è che non potendomi muovere da sola, per andare alla toilette, mi hanno messo il catetere che nella mia condizione di nevralgia, non fa che aumentare l’infiammazione. Nonostante io l’abbia fatto notare, lamentandomi per la sofferenza e chiedendo che mi venisse tolto subito, mi hanno risposto che avrei dovuto prima aspettare che il sacchetto per l’urina fosse tutto pieno. Inoltre, quando dopo ore, finalmente si sono presentati i medici, mi hanno portato gli stessi farmaci che già assumevo normalmente, dimostrazione del fatto che non avevano nemmeno letto la mia cartella clinica. Sono stata trattata talmente male che in taxi, mentre tornavo a casa, ho avuto pensieri di suicidio. A quel punto, dopo aver pianto tutta la notte, ho deciso di fare il biglietto per la Francia, dove mi hanno curata decisamente meglio. Io sono fortunata perché ho tanti cari amici e la mia famiglia che mi sostengono, ma per chi non ha questi sostegni, capisco che tali maltrattamenti, aggiunti ai dolori, portano a disperare e a voler morire»

Come fa a muoversi fuori di casa, da sola?

«Purtroppo sono costretta a prendere i mezzi da sola oppure devo prendere un taxi per disabili che costa di più di un taxi normale, perché sono pochi e spesso arrivano già col tassametro a 10-15 euro. La cosa più incredibile è che lasciano girare il tassametro mentre caricano e scaricano la carrozzella e spesso davanti alle mie rimostranze mi hanno risposto che “è il gioco del lavoro”».

Nei suoi spostamenti fuori di casa incontra solidarietà da parte della gente?

«In genere sì: c’è ad esempio chi mi aiuta a salire con la carrozzina sull’autobus, però c’è anche chi non mi lascia il posto. Un paio di volte mi è capitato che il tram fosse pieno e nessuno mi abbia fatto spazio per farmi salire. Così ho dovuto proseguire con la mia carrozzina. Uno di quei giorni mi trovavo a Trastevere e ho scoperto che tante persone non erano scese per farmi salire sull’autobus, solo perché erano dirette a Porta Portese che però distava appena 300 metri dalla fermata precedente! A mio parere la pandemia e l’isolamento sociale ha peggiorato la qualità delle relazioni: ricordo che una sera, tornavo carica di buste dal supermercato e un vicino si è rifiutato di aiutarmi, perché mi ha detto esplicitamente, che temeva il contagio».

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