01/07/2025 di Luca Marcolivio

Fine vita. Parla la palliativista: «Suicidio assistito è frutto della paura, serve più informazione sulle cure»

Sul fine vita non serve una legge. È necessario, piuttosto, incentivare le cure palliative, specie dal lato della formazione e dell’informazione a livello generale. Se si riuscirà a valorizzare al massimo questa pratica, la richiesta di suicidio medicalmente assistito tende a ridursi sensibilmente. A parlare così, ai microfoni di Pro Vita & Famiglia, è Letizia Ronchi, medico palliativista, operativa presso il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, che abbiamo intervistato per far luce sullo stato attuale delle cure palliative, su cosa lo Stato dovrebbe ancora fare in tal senso e, di conseguenza, se davvero serve una legge sul suicidio medicalmente assistito, come vorrebbe la proposta di legge che il prossimo 17 luglio dovrebbe arrivare in Aula al Parlamento e il cui testo base sembra secondo le indiscrezioni già essere pronto anche con il supporto di una certa parte della maggioranza di centrodestra.

 

Cosa ne pensa di una possibile legge sul fine vita?

«Qui si entra in un terreno delicato. Mi appoggerei a quanto sosteneva la pioniera delle cure palliative, Cecily Saunders: se i pazienti fragili e vulnerabili sapessero dell’esistenza di una legge in grado di abbreviare le proprie vite si sentirebbero in diritto e forse anche in dovere di farlo, perché sanno che la loro condizione è impegnativa per loro e anche per chi le assiste. Il fatto che dei soggetti fragili possano sentirsi in dovere di abbreviare la propria vita è un fatto che spaventa. Come medico, sono per la vita e credo la risposta importante sia non far sentire sole le persone. Non sempre questo nella nostra società viene manifestato e riconosciuto. Non credo, dunque, che una legge possa dare una risposta concreta. La vera risposta dovrebbe stare nel garantire ai pazienti che non saranno soli e che i sintomi dolorosi possono essere tenuti sotto controllo. Il fine vita (come suicidio assistito o eutanasia ndr) è una prassi che nasce dalla paura, anche se il lavoro degli hospice e di tanti palliativisiti dimostra che si tratta di paure infondate: le settimane e mesi finali nella vita dei pazienti terminali sono spesso una grande occasione per loro stessi e per le famiglie per riscoprire e recuperare le relazioni umane. Anche nel fine vita, quindi, possono succedere tante cose belle».

Non sarebbe forse necessario, piuttosto, incentivare in qualche modo le cure palliative anche con una nuova legge che affianchi quella già esistente?

«Secondo me si sta facendo un gran lavoro, ma il rischio è che si parli molto e si concretizzino poco gli interventi. C’è un grande desiderio di valorizzare le cure palliative ma, come accennavo, va svolto un grande lavoro culturale su cosa sono queste cure e su cosa possono offrire».

A proposito di cure palliative, qual è lo stato attuale nel nostro Paese?

«Dopo il Covid, le cure palliative in Italia hanno ricevuto un notevole e apprezzabile incentivo. Certo, in alcune regioni sono state valorizzate un po’ di più, in altre meno, tuttavia, in linea generale, hanno conosciuto un certo exploit, che però non è stato sufficiente a coprire il fabbisogno reale. Anche perché, a fronte di questo tentativo di portare le cure palliative un po’ ovunque nel panorama nazionale, rimangono carenze a tutti i livelli». 

Carenze di che tipo?

«Ad esempio, manca la formazione, quindi non è facile trovare specialisti competenti. La scuola di specializzazione è nata un paio di anni fa. Solo negli ultimi anni, quindi, le cure palliative sono diventate materia di studio nei corsi di medicina e chirurgia. Ciò ha determinato un po’ di confusione rispetto a cosa siano realmente le cure palliative. Forse siamo sulla buona strada ma c’è ancora tanto da fare».

Cosa si può fare e quante risorse ulteriori servirebbero?

«Le risorse sono poche un po’ ovunque. Con eccezioni: nella nostra Regione – l’Emilia-Romagna – ad esempio, di risorse ce ne sono molte e le cure palliative sono molto apprezzate e valorizzate. Ciononostante, credo che il problema sia a monte: finché le cure palliative non entrano nel percorso formativo dei medici, diventa veramente difficile che le risorse vengano usate nel migliore dei modi». 

Può farci un esempio?

«Alcune settimane fa, siamo stati contattati da un collega di medicina generale e ci hanno portato un malato cronico affetto da patologia neurodegenerativa. Questo paziente non aveva mai sentito parlare di cure palliative e non sapeva della nostra esistenza, pur abitando in un territorio dove le cure palliative sono piuttosto praticate e conosciute. È solo un esempio per dire quante lacune ci siano, sia a livello di percorso di studi, sia a livello culturale e informativo. Le cure palliative nascono per il fine vita ma poi, negli ultimi decenni, si è visto che hanno avuto un impatto positivo non solo sulla qualità della vita dei pazienti ma anche sulla riduzione delle ospedalizzazioni inutili. Ciò è sostenuto anche da un’ampia letteratura a livello mondiale. Tuttavia, vuoi per scarsità di risorse, vuoi per la poca informazione a tutti i livelli, serve ancora un grande lavoro culturale».

Sempre alla luce della sua esperienza professionale, ritiene che le cure palliative possano aiutare i malati gravi e terminali ad amare comunque la propria vita (quindi a non optare per l’eutanasia o per il suicidio assistito)?

«Se, come detto prima, la scelta di abbreviare la propria vita proviene da una paura considerata più grande di tutto il resto, avere vicino qualcuno che prova a prendere in considerazione questa sofferenza, aggravata anche dal notevole costo delle cure, ad alleviarla con i farmaci e con una presenza più costante, è sicuramente una buona risposta».

 

 

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