«A me la vita è male», «funesto a chi nasce è il dì natale», «al gener nostro il fato non donò che il morire» e «con la mano/ la fredda morte ed una tomba ignuda/mostravi di lontano»: se ne potrebbero citare a iosa di versi e di prose che attestano il famoso pessimismo di Giacomo Leopardi (1798-1837) e il suo male di vivere. Se poi è vero che aveva la spondilite anchilopoietica giovanile, causa della famosa gobba, viveva probabilmente anche con parecchio dolore fisico. Oltretutto, secondo tutti gli studiosi certamente non era credente, ma formato al razionalismo materialista di stampo illuminista. Perciò, tirando le somme, uno così dovrebbe essere favorevole al suicidio.
E invece no.
Il valore della Vita
Ci sorprende in tal senso, nelle Operette Morali, il Dialogo di Plotino e Porfirio. Porfirio spiega le sue mille buone ragioni per togliersi la vita: il suicidio è l’unica via d’uscita dignitosa per chi soffre, è un atto di libertà e di coerenza. Leopardi-Plotino molto razionalmente cerca di dissuaderlo («Non è lecito all’uomo di rompere da sé il vincolo della vita»), perché il suicidio è contro-natura (Porfirio: «Se l’anima è prigioniera del corpo, perché non scioglierla?» Plotino: «Perché ella è chiusa nel corpo non a caso, né per forza, ma per ordine della natura e per bene suo»).
Il suicidio non libera l’anima
Leopardi sostiene che il suicidio non libera l’anima, ma la lascia schiava delle passioni da cui essa tenta di fuggire («L’anima che lascia il corpo per sua propria elezione, porta seco quelle passioni medesime dalle quali si voleva liberare. Non si fugge così facilmente da se medesima»), il che è da vili («Fuggire il dolore non è da forte, ma da vile; e però la morte volontaria, nella più parte de’ casi, non è effetto di magnanimità né di virtù, ma di debolezza»); è un atto da disperati irrazionali («La disperazione non è consigliera da seguirsi: ella offusca la ragione, e fa parere lecite e utili cose che non lo sono»). Solo una vita vissuta nella ricerca del bene e del vero, anche attraverso il dolore, può condurre l’anima verso l’autentica libertà: «Sopportare la vita è ufficio del saggio. La natura non ha messo il bene nella fuga del male, ma nella resistenza. [...] Il dolore è un mezzo di purificazione dell’anima, non una prova della sua condanna». Oltre tutte queste argomentazioni razionali, alla fine del Dialogo Leopardi supera anche il titanismo romantico dell’eroe che - pur sapendo che soccomberà - deve combattere da solo. Egli infatti scopre che il senso e il valore della vita, pur sofferente, è nella relazione umana, tanto che il suicidio diventa un atto profondamente egoistico: «Colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilitá propria; si gitta, per cosí dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che, in questa azione del privarsi di vita, apparisce il piú schietto, il piú sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo».
«Viviamo!»
E in conclusione, anche se «la vita è male», l’amicizia e l’amore servono a superare la «fatica della vita»: «Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima: a me, che non ho persona piú cara, né compagnia piú dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosí, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».