29/09/2022 di Federico Cenci

Così in Ungheria il gender entra anche in azienda

L’ideologia gender che in Ungheria è uscita da aule scolastiche e tv, rientra dalle porte degli uffici di una grande azienda straniera. Stando infatti a quanto scrive il portale magiaro Mandiner, i dipendenti ungheresi del colosso delle comunicazioni tedesco Deutsche Telekom avrebbero recentemente ricevuto un manuale che si configurerebbe come una sorta di “bibbia” dell’identità di genere.

Nel libro troverebbe spazio qualche informazione recuperata non si sa dove. Ad esempio che non più dell’80 per cento della popolazione mondiale è eterosessuale, mentre il 19 per cento omosessuale e l’1 per cento transgender. Tale suddivisione, però, non sembra trovare riscontro in dati scientifici. Piuttosto, per avere un’idea maggiormente aderente alla realtà può essere utile consultare un sondaggio effettuato tra gli statunitensi da parte della società di analisi e consulenza Gallup. Ne emergerebbe che solo il 7 per cento si identifica come Lgbt (dunque omosessuali e transgender insieme): si tratta di una cifra - in una nazione che durante l’amministrazione Biden può mostrare il bollino di garanzia gay-friendly - ben lontana da quel 20 per cento addotto da Deutsche Telekom.

Non mancano poi i capisaldi dell’ideologia gender: il sesso biologico - si leggerebbe - è assegnato alla nascita, ma ad esso si affianca «il genere, che non è binario, né maschile né femminile». Gli autori di questa summa arcobaleno rileverebbero inoltre che l’identità di genere non sarebbe una scelta, bensì un fatto cerebrale innato. Una simile affermazione contrasta però con una serie di studi - riportati da Pro Vita & Famiglia - che dimostrano che omosessuali e transgender non ci si nasce.

Dopo la parte informativa, si passerebbe a una serie di consigli su come trattare colleghi di lavoro che non si riconoscono nel proprio sesso biologico. L’invito sarebbe a evitare battute «anti-trans» (anche se non è specificato cosa intendano di preciso) e a chiamare tutti con il genere del pronome scelto, non quello assegnato dal proprio sesso biologico. Guai, dunque, a chiamare un uomo che si sente donna «lui» anziché «lei». E ancora, si raccomanderebbe l’uso di servizi igienici unisex e il posizionamento di cestini per assorbenti in tutti i bagni, poiché «anche gli uomini possono avere le mestruazioni» (sic!).

Tutto qui? No. Il manuale rammenterebbe che non basta consentire alle persone Lgbt di vivere nel luogo di lavoro secondo i «propri valori», ma che è necessario il sostegno alla causa gay da parte di tutti i colleghi. Di qui l’invito a partecipare a eventi organizzati da gruppi Lgbt all’interno dell’azienda con vivo trasporto, magari mostrando adesivi e altri vessilli arcobaleno. Ciliegina sulla torta: si raccomanderebbe di segnalare ai superiori eventuali violazioni «sospette» delle linee guida. Un metodo da Germania dell’Est da esportare nell’Ungheria odierna.

Sorge allora una domanda: quali provvedimenti prenderà l’azienda nei confronti di quei dipendenti che dovessero rifiutare certe linee guida? Richiamo? Sospensione? Persino licenziamento? La vicenda suggerisce una riflessione su un mondo globale in cui la protervia ideologica di grandi aziende internazionali, foraggiata dal potere economico, rischia di sovrastare culture e legislature locali.
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