24/11/2022 di Luca Marcolivio

Carriera Alias e transizione. I dubbi (e la rabbia) dei genitori

Sulla carriera alias e sull’indottrinamento gender a scuola, c’è un gran numero di genitori contrari e sono probabilmente la maggioranza. Un fenomeno crescente è quello dei minori qualificati – spesso fin dall’infanzia – come affetti da disforia di genere. La condizione psico-fisica di questi bambini e ragazzi viene passata al vaglio di scuola, servizi sociali e sistema sanitario, con le famiglie spesso messe ai margini da processi decisionali estremamente delicati.

Le testimonianze raccolte in esclusiva da Pro Vita & Famiglia in occasione dell’evento romano Contro la propaganda gender: idee e strumenti per proteggere donne e bambini sono la conferma di quanta confusione e disinformazione regni sull’argomento ma, soprattutto, dei danni incalcolabili che la superficialità delle istituzioni può arrecare a tante vite innocenti.

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Ci sono gruppi di genitori che, non rassegnandosi mai realmente alla transizione dei figli, hanno iniziato a fare rete tra di loro con incontri e videocall su social stranieri. Tra questi una madre che – chiedendo il mantenimento dell’anonimato – ha raccontato di sua figlia, che oggi «si definirebbe una bambina non conforme», mentre in altri tempi sarebbe stata definita «un maschiaccio».

«Mai una gonna, mai un fiocchetto, mai un vestitino, mai uno sport femminile, mai un colore rosa. Non per questo aveva mai messo in discussione il suo essere femmina», né «aveva mai rifiutato il suo corpo». Questa ragazza ha vissuto un’adolescenza difficile, stentando ad integrarsi con le coetanee, rispetto alle quali mostrava sensibilità diverse, come quella di «preferire la lettura di un libro a una serata in discoteca».

Di seguito, la giovane protagonista di questa drammatica storia ha vissuto due cambiamenti di grande impatto: durante il lockdown per la pandemia, è venuta a contatto con amici virtuali che ha scoperto «essere confusi come lei e alcuni già sulla via della transizione medica».

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Segue il trasferimento in un’altra città, dove la ragazza vive la sua prima relazione omosessuale, conclusa la quale cade in una crisi profonda, accompagnata da disturbi alimentari, autolesionismo e con idee suicidarie. Ricoverata in psichiatria, ne esce «dopo dieci giorni con diagnosi di depressione maggiore con spunti psicotici, imbottita di antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici e inizia la lenta metamorfosi».

Alla fine dei sei mesi successivi, la giovane, che ormai si veste e si acconcia da maschio, proclama di sentirsi uomo ed esige di farsi chiamare con un nome maschile.

La madre, in quel momento convinta che la depressione della figlia «derivasse dal suo essere nata nel corpo sbagliato», ha iniziato in seguito a nutrire i suoi dubbi. Tutto quanto era successo «troppo all’improvviso». Inoltre, si è domandata, «perché di colpo così tanti bambini e soprattutto adolescenti pronti a dichiararsi trans?».

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Entrata in contatto con altri genitori di ragazzi disforici o transgender, la donna inizia a imbattersi in una serie di nuovi dogmi del politicamente corretto: «Se tua figlia o tuo figlio ti dicono che sono nati nel corpo sbagliato c’è un’unica risposta: la transizione». Non è tutto: «Se non accetti la nuova identità di tuo figlio, lui finirà per uccidersi».

Tutte le persone venute a contatto con questo caso sono convinte del fatto che la ragazza è ormai un ragazzo e va incoraggiata a procedere con la transizione ormonale e chirurgica che lei stessa inevitabilmente inizierà. Lo stato depressivo e gli atti di autolesionismo, però, non accennano a scomparire.

La madre è sempre più convinta che quel percorso di vita non va; insiste allora nel cercare informazioni diverse dalla narrativa dominante e le trova un gruppo americano.

«Abbiamo trovato uno psicologo convinto della necessità di lavorare PRIMA sui suoi traumi, sulla sua ansia, sulla sua depressione, sulla sua mancanza di autostima e POI sulla transizione, qualora la disforia di genere fosse persistita».

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Risultato: la ragazza «non assume più farmaci, non si taglia più, ha elaborato i suoi traumi, ha lavorato sulla sua autostima, sta costruendo la sua personalità». Non solo: sta tornando a farsi chiamare col suo nome originario ed è tornata a indossare biancheria femminile.

«Mi chiedo quanti genitori non hanno avuto la forza di dire no, assumendosi anche il rischio di dire: mia figlia non si suiciderà perché sa che noi la amiamo – afferma la madre –. Se mia figlia avesse iniziato il percorso di transizione, adesso il testosterone le avrebbe già cambiato in modo irreversibile la sua voce, e già solo quello sarebbe stato un cambiamento irreversibile, non oso pensare alla mastectomia bilaterale».

Tutto questo non cancella nella madre il timore per una ricaduta della figlia nel dubbio e nel possibile rimpianto di una transizione mai realmente avviata.

L’altra testimonianza riguarda, invece, un ragazzo che, a quindici anni, comunica ai genitori la propria «confusione rispetto alla sua identità». «Succede che un giorno si definisce nonbinary, un giorno Pan, un giorno fluidgender, un giorno trans», riferisce la madre.

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Il quindicenne viene così mandato da una psicologa che, all’insaputa dei genitori, incoraggia frettolosamente il giovane paziente alla transizione, terapia ormonale compresa. Pochissimo tempo dopo, «mio figlio è andato a scuola con reggiseno, “trucco e parrucco”».

Al momento, il ragazzo continua la sua «transizione sociale» ma è pieno di dubbi su quale sarà il suo futuro, domandandosi: «Anche se volessi come faccio a tornare indietro oramai?».

Pur volendo supportare il figlio «qualunque sarà la sua scelta», la madre, però, aggiunge: «Cara struttura pubblica riconosciuta dal servizio sanitario, ad una domanda dovete rispondermi: perché tanta fretta?»

E ce lo chiediamo anche noi.

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