20/12/2019

Una casa rifugio Lgbt a Roma. Ecco perché è una pessima idea

Una casa rifugio per le persone «rifiutate dalle famiglie per la loro identità di genere». È l’idea, anzi il piano che ha in mente Cristina Leo, psicologa e attivista per i diritti civili nonché primo Assessore trans alle Politiche Sociali nel Municipio VII di Roma, subentrata a Veronica Mammì. Un piano, quello della Leo, per realizzare il quale è già stato individuato un immobile che si trova in zona Morena, uno di quelli confiscati alla criminalità.

La volontà assessorile, nello specifico, è quella d’inaugurare una casa di semi-autonomia con spazi comuni e di socializzazione. Una struttura che però potrà ospitare poche persone per volta – fino a quattro, pare - per un periodo che potrà andare dai 12 ai 18 mesi, in affiancamento ad un sostegno psicologico e di accompagnamento all'autonomia. Ora, è chiaro che l’accoglienza nei confronti di persone oggetto di qualsivoglia forma di violenza è qualcosa di doveroso: ci mancherebbe altro.

Un discorso ben diverso però è – e qui veniamo all’idea della Leo – quello di riservare una apposita struttura alle persone «rifiutate dalle famiglie per la loro identità di genere». Benché avvolta in un involucro filantropico e solidaristico, tale decisione appare quanto meno opinabile. Anzitutto perché dà per scontato che le persone con tendenze non eterosessuali abbiano necessariamente nelle loro famiglie i pericoli maggiori; in modo indiretto, l’istituto familiare viene così messo sotto processo ancora una volta, per giunta in modo aprioristico.

Una seconda criticità dell’iniziativa del Municipio VII di Roma consiste nel fatto che, occupandosi delle persone «rifiutate dalle famiglie per la loro identità di genere», finisce con il porre in secondo piano tutte le persone con tendenze omosessuali che subiscono violenza per mano dei loro partner. E ci sono, eccome. Parliamo infatti di vittime di violenza domestica le quali spesso non vengono manco accettate dai centri antivolenza, che salvo lodevoli eccezioni sembrano operare nel convincimento tutto ideologico che certe aggressioni abbiano luogo esclusivamente nella cosiddetta famiglia tradizionale. Ma non è affatto così.

 Fa particolarmente riflettere, in proposito, il caso – balzato agli onori delle cronache pochi anni fa - di un ragazzo di 35 anni della provincia di Bologna, il quale, dopo aver subito per ben quattro anni percosse sistematiche ed abusi da parte del proprio compagno, ha deciso di non tacere più, ma purtroppo non è stato preso sul serio non solo dalle forze dell’ordine, ma neppure dal centro antiviolenza: «Il centro antiviolenza a cui mi sono rivolto ha deciso solo dopo una riunione straordinaria di accettare il mio caso: ho dovuto chiamare decine di volte. Poi abbiamo iniziato il percorso, ma con un grande imbarazzo. Ero il primo uomo che vedevano» (27esimaora.corriere.it, 22.3.2015).

C’è infine una terza ed ultima ragione per cui la casa rifugio promossa dall’Assessorato romano alle Politiche Sociali nel Municipio VII di Roma appare un’iniziativa dalle finalità apparentemente nobili ma, nei fatti, poco convincente; ci si riferisce al fatto che essa non solo demonizza aprioristicamente la famiglia - e mette, come detto, in secondo piano le violenze domestiche interne alle coppie Lgbt -, ma contribuisce ad alimentare il falso mito secondo cui in Italia si respirerebbe un clima omofobo o transfobico. Peccato che non ci sia nessuna statistica seria a favore di questa tesi, che gode di ampia copertura mediatica e che ha, in ultima analisi, un solo scopo: ridurre al silenzio il mondo pro family, che si batte affinché sia riconosciuto e difeso il diritto di ogni bambino ad un padre ed una madre.

 

di Giuliano Guzzo

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