13/02/2024 di Giuliano Guzzo

Un bilancio del Festival di Sanremo. Ideologie e gender (quasi) messi alla porta

È vero, mentre cantava Rosa Chemical – durante il Festival di Sanremo conclusosi sabato scorso - hanno iniziato a stagliarsi sopra il palco dell’Ariston dei peni volanti sorridenti, alternati a cuori, sagome dell’Italia, e numeri con riferimenti al poliamore; ed è altrettanto vero che la concorrente BigMama non ha mancato di lanciare il suo saluto, sempre dal palco, al mondo arcobaleno con queste parole: «Dedico il mio brano a tutta la comunità queer, amatevi liberamente: potete farlo». Allo stesso modo non va dimenticato come, durante le pause pubblicitarie della kermesse, sia andato in onda lo spot della regione ligure, «Liguria da baciare», con tanto di bacio tra due donne (in una versione) e tra due uomini (nell’altra versione), che ha fatto il paio con l’ormai famoso spot pro gender – e anti famiglia, e anti matrimonio cristiano – della Pupa, mandato in onda sempre durante le serate della kermesse canora.

Ciò nonostante, va detto, il 74esimo Festival di Sanremo è stato, nel complesso, meno ideologico del solito. Lo ha notato anche un fine osservatore dei mass media come il giornalista Maurizio Caverzan, che dalle pagine de La Verità ha ricondotto tutto questo a… delle assenze. «Le assenze», ha scritto infatti il giornalista, «hanno giovato. Quest’anno sono mancati coloro che ormai sembravano abbonati a Sanremo. Achille Lauro e i Måneskin, l’ex capo dell’Intrattenimento Stefano Coletta, i Ferragnez e i siparietti Lgbtq+. Non si sono sentiti monologhi politici. E non si sono visti i grandi capi Rai in prima fila. Non essendoci, hanno fatto il bene del Festival».

In effetti erano anni che il palco dell’Ariston era sistematicamente colonizzato dall’ideologia. In principio, nel 2015, ad inaugurare la tendenza fu la presenza di Conchita Wurst, la drag queen austriaca con la barba che, allora, aveva vinto l'ultima edizione dell'Eurovision Song Contest. Poi, nel 2016, nel corso delle prime tre serate della kermesse, l’attenzione fu per quei cantanti saliti sul palco sfoggiando nastri con i colori dell’arcobaleno; in particolare, tra gli artisti che aderirono a tale dimostrazione - se così la vogliamo chiamare -, vi furono Enrico Ruggeri, Noemi, i Bluvertigo, Patty Pravo ed Eros Ramazzotti.

Oltre a ciò, negli anni scorsi, avevano avuto il loro peso (e la loro visibilità) i personaggi sfilati sul palco sanremese come grandi ospiti internazionali: dalla poc’anzi ricordata Conchita Wurst ad Elton John, da Ricky Martin a Tiziano Ferro; tutti artisti di indubbio talento, sia chiaro, ma con un rapporto particolare con i temi etici, tanti di essi in particolare anche con l’utero in affitto. Ne consegue come, nonostante le parentesi non così piacevoli, anzi, già ricordate, questa edizione del festival della canzone italiana sia davvero - nel complesso dei valori veicolati - stata migliore delle precedenti. Strano, visto che a condurre lo show c’era comunque lo stesso Amadeus. Eppure è andata così, non solo con meno spazi all’ideologia dominante, ma perfino alcuni messaggi controcorrente, all’insegna della speranza, della famiglia e perfino della vita.

Basti ricordare, su questo, il toccante monologo del maestro Giovanni Allevi, che ha testimoniato la bellezza della vita anche nella malattia; l’esibizione da tutti considerata più commovente, quella di Angelina Mango che ha cantato la Rondine - un omaggio al padre scomparso -; il bel messaggio in favore della prevenzione al suicidio dei La Sad: «La musica ci ha salvato la vita». A tale proposito, per concludere, viene da augurarsi – visto e considerato come la Regione Liguria governata da Giovanni Toti sta facendo delle pericolose aperture proprio al suicidio assistito – che la prossima volta, sul palco dell’Ariston, trovi spazio anche una campagna contro tutte le forme di suicidio, dato che ogni forma di questa pratica è una terribile sconfitta per l’intera società. O no?

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