La pari dignità tra uomo e donna è un principio sacrosanto, sancito non solo dall’art.3 della Costituzione, ma anche dalla legge naturale.
Pari dignità, però non vuol dire identità: l’uomo e la donna sono diversi, fisicamente, fisiologicamente e psicologicamente. Questo concetto è stato recepito anche da quella parte del movimento femminista detta “della differenza”, che, appunto, invoca la “parità” tra uomo e donna che non è la stessa cosa di “uguaglianza” in senso stretto. E’ banale dirlo, ma purtroppo oggi è necessario, vista la diffusione della propaganda gender.
Se gli attacchi più pericolosi e vigliacchi, contro la natura e la ragionevolezza vengono sferrati negli asili e nelle scuole elementari (bambini tutti nudi in una stanza buia, per fare esperienza del proprio corpo; bambini costretti a scambiarsi gli abiti con le bambine… Guardate qui in Svezia dove sono andati a finire), non è da sottovalutare la propaganda che si insinua nelle scuole medie e superiori. Lì certamente, sono molto più attenti a mascherare l’intento, perché i ragazzi sono già abbastanza formati – secondo quanto dispone madre natura, e non gli “stereotipi inculcati” da quei “luoghi di castrazione che sono le famiglie”, secondo lorsignori. Quindi i giovani tendono istintivamente, giustamente e naturalmente, a rifiutare l’idea che essere maschio o femmina sia un optional, come i cerchi in lega nelle auto.
E allora la propaganda si insinua in modo viscido e subdolo. Si insinua mascherata da lotta al bullismo e all’omofobia, si insinua mascherata da lotta alle discriminazioni tra uomo e donna.
Un esempio di quest’ultimo genere di propaganda ci viene da Trento: è il progetto “A scuola ci sono anch’i*”. Chi volesse capire perché l’asterisco al posto della “o”, legga qui.
Sulla pagina Facebook dedicata si può leggere che è un “progetto sull’educazione alla parità. I ragazzi si sono vestiti da operai, falegnami, imbianchini, cuochi e insegnanti, medici e infermiere, piloti e casalinghe, bancari e cardinali. Si sono scambiati gli abiti facendosi poi ritrarre sullo sfondo di importanti portali della città.
Le immagini sono state installate a Trento presso il sotto passo della stazione, in Via Lampi, con il dichiarato obiettivo di stimolare sguardi e occhi distratti dei passanti sul tema dell’educazione alla parità e sull’urgenza di una maggiore parità tra donna e uomo”.
Valentina Musmeci, docente e fotografa, spiega che il suo progetto serve a riflettere sulla “comunicazione stereotipata nei Media e nell’Arte”, per “creare una nuova consapevolezza di modelli femminili e maschili per non precludere ad alunne ed alunni scelte”: fin qui è ideologia gender allo stato puro. Però poi attenua il colpo aggiungendo “di studio e professione legate al genere”.
Poi prosegue con l’elenco di quelle che secondo lei sono professioni genderizzate: “parrucchiera, casalinga, colf, insegnante, infermiere, medico, falegname, muratore, imbianchino, operaio, pilota di aerei, meccanico, cuoco, bancario e cardinale”.
Non so a Trento, ma qui nel resto d’Italia parrucchieri, colf, insegnanti, infermieri, medici, operai, cuochi, bancari sono indifferentemente sia maschi che femmine. La “casalinga” e il “cardinale” non sono per niente affatto dei “mestieri”, quindi resta ben poco agli stereotipi di cui parla la Professoressa. E magari se le donne non fanno il meccanico è per un naturale disinteresse ( se non repulsione) per le mani sporche di grasso: molto interessante l’indagine condotta in Norvegia poco tempo fa che potete vedere qui.
Infine la professoressa spiega che nel suo progetto è a colori: “ non solo il rosa e l’azzurro rappresentano il femminile e il maschile, fuori dagli stereotipi il mondo è multicolore” (potremmo dire “arcobaleno”?).
Allora ci chiediamo: chi ha finanziato il progetto ha valutato questi risvolti? I genitori erano stati coinvolti ed informati sui suoi reali obiettivi? Prima di poter proporre nelle scuole percorsi di questo tipo, visto che l’argomento è particolarmente delicato, non è necessario che la cosa venga discussa e approvata anche da loro?
Non possiamo far altro che insistere nell’invitare i genitori (e gli studenti più grandi) a riflettere bene, con la propria testa, quando vengono fatte proposte siffatte, perché le Istituzioni non sembrano interessate a difendere la libertà di crescita naturale dei nostri figli: dobbiamo tutelarci da soli.
Francesca Romana Poleggi