22/03/2013

Sull’eugenetica

Esiste un numero assai elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerarsi veri e propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo.
[H. W. Kranz, Istituto di Eugenetica dell’Università di Giessen ]

Nel 1883 un poliedrico antropologo e psicologo, Francis Galton, per la prima volta conia nel volume Inquiries into Human Faculty and Its Development il termine eugenics. Forte è la suggestione esercitata su Galton da L’origine delle specie, pubblicata ventiquattro anni prima dal suo lontano parente Charles Darwin: gli spunti forniti dalla teoria della selezione naturale sono sviluppati da Galton in un vasto programma di indagine statistica sulla variabilità e trasmissibilità ereditaria dei caratteri umani, che porta l’autore a concludere per la prevalente incidenza nell’individuo del dato naturale rispetto ai frutti dell’educazione ricevuta (nature versus nurture).

Da una simile impostazione deriva, a detta di Sir Galton, la necessità di promuovere i caratteri ereditari “vantaggiosi” o, appunto, eugenici, a scapito dei caratteri indesiderati o disgenici, nell’ottica di un vero e proprio miglioramento della razza e, pertanto, della società: “L’uomo ha il dono della pietà, e di altri gentili sentimenti; ha altresì il potere di prevenire molti tipi di sofferenza. Credo che questo ci mostri bene come rimpiazzare la Selezione Naturale con altri processi, più pietosi ma non meno effettivi. Ed è precisamente lo scopo dell’Eugenetica. Il suo primo obiettivo è controllare il tasso di natalità degli Inadatti, invece di consentir loro di nascere sempre e comunque, ancorché in larga misura destinati a perire prematuramente. Il suo secondo obiettivo è il miglioramento della razza, implementando la fertilità degli Adatti attraverso il matrimonio tra individui giovani e l’allevamento della loro prole sana. La Selezione Naturale si basa su una ‘sovrapproduzione’ di individui e sulla loro distruzione ‘all’ingrosso’; l’Eugenetica, invece, si propone di mettere al mondo solo il numero di individui che possano ricevere adeguate cure, e solo individui del tipo migliore” (da Memories of my life, 1908).

Dietro lo schermo pietista, stanno gli argomenti di quel movimento biosociale noto come eugenismo, di cui l’eugenetica costituisce la fase applicativa. Chi pensasse che l’eugenetica giustificata e praticata su larga scala sia stata esclusivo appannaggio dell’antichità classica o della follia del Terzo Reich, constaterebbe con imbarazzo che proprio l’Inghilterra vittoriana – così rispettabile e così distante da estremismi ideologici o totalitarismi illiberali – incuba i germi dell’indiscusso successo che simili prassi e simili teorie hanno poi conosciuto nel XX secolo.

L’interesse, inizialmente soprattutto accademico, per il tema eugenetico aumenta: nel 1925 viene fondata la International Federation of Eugenics Organizations (IFEO), da subito significativamente  connotata in chiave razzista dal momento che i suoi membri esplicitamente contestano l’uguaglianza tra esseri umani e compiono, in alcuni casi, propaganda politica a favore della razza “bianca” (“nordica” o “ariana”).

Non si tratta di occasionali degenerazioni del malthusianesimo, ossia di quella corrente di pensiero – basata sulla teoria demografica di Thomas Malthus – che promuove un attivo controllo delle nascite per prevenire cicliche crisi da scarsità di risorse; ma di un’autentica temperie culturale sostanziata in un programma eugenetico, applicato in proporzione e modalità variabile da numerosi governi occidentali fino alla Seconda Guerra Mondiale, e comprendente lo screening delle caratteristiche genetiche della popolazione, la promozione di tassi di riproduzione differenziati a seconda dell’etnia o delle condizioni personali, la segregazione degli individui giudicati unfit, restrizioni alla libertà di contrarre matrimonio, sterilizzazioni e aborti forzati, fino all’estremo del vero e proprio genocidio. Sarebbe un errore confinare al Terzo Reich la pratica eugenista su larga scala: dal 1907, diversi stati nordamericani approvano infatti leggi che consentono la sterilizzazione coatta di criminali, ritardati mentali, alcolizzati, prostitute, con preferenza per gli individui di etnia non anglosassone. A completare tale pianificazione demografica, altre leggi proibiscono (come  avveniva nelle colonie dell’Africa meridionale) matrimoni interrazziali.

Ma è il Nordeuropa pacifico, ricco e socialmente sviluppato a riservare le sorprese maggiori: tra il 1929 e il 1935, i quattro Paesi scandinavi varano politiche di sterilizzazione, che la propaganda ufficiale giustifica come “bonifica” da elementi “biologicamente tarati”, alla ricerca ancora una volta del miglioramento della “razza” (in Svezia, l’Istituto di Biologia razziale opera fino agli anni ’50). Alcuni commentatori rilevano peraltro che tale fil rouge sia stato, almeno nel caso della Svezia, un pretesto (inaccettabile) per una bieca operazione di repressione socioeconomica, basata su criteri di “buona cittadinanza” di matrice puritano/calvinista, mirati alla selezione di un folkhem, un popolo, compatto ed omogeneo come un’unica famiglia. Chi non corrisponde allo standard non è il benvenuto; devono, pertanto, essere sterilizzati i “marginali”, quanti reputati moralmente o economicamente incapaci di fornire agli eventuali figli un’appropriata educazione.

Un’eugenetica che colpisce soprattutto le donne: prevedendo infatti il welfare-state svedese la corresponsione di assegni di maternità, la prolificità viene guardata come doppiamente dannosa – per i bilanci pubblici e per l’etica collettiva – se riguarda donne definite, spesso da diagnosi compiacenti, come malate di mente o “devianti”, magari perché affette da stati depressivi, poco brillanti negli studi o giudicate troppo dedite ai divertimenti o alla coltivazione di amicizie maschili. Così si esprime sul punto la legge del 1934: “Qualora si possa ritenere che qualcuno – sofferente di malattia mentale, minorazione mentale o altro squilibrio dell’attività mentale – sia per tale ragione incapace di assicurare la cura dei propri figli, o sia destinato a trasmettere ai suoi discendenti in base alla legge dell’ereditarietà tale malattia mentale o minorazione mentale, è possibile, secondo la presente legge, intraprendere la sterilizzazione, laddove questi – a causa delle sue disturbate funzioni mentali – sia permanentemente incapace di fornire un consenso valido all’intervento”. Nella prassi, molte sterilizzazioni saranno coercitivamente imposte, e spacciate per volontarie, anche a donne perfettamente compos sui; un pesante scheletro nell’armadio per nazioni universalmente ritenute socialmente avanzate e altamente rispettose dei diritti umani.

Nella Germania nazista, in una luciferina perversione del giuramento d’Ippocrate, sono in prima linea personalità di spicco del mondo della medicina, quali Eugen Fischer, Otmar von Verschuer e Josef Mengele. Gli interessi di Fischer, in particolare, si concentrano inizialmente sui discendenti di unioni miste tra colonizzatori europei (tedeschi e boeri) e popolazione autoctona nei territori dell’attuale Namibia: i Mischling, dei quali scoraggia – con studi significativamente denominati bastard studies – l’incremento. Nel 1926 Fischer diventa direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Antropologia, Eredità umana ed Eugenetica (KWI-A) e conia il termine antropobiologia (poi detta teoria fenogenetica), indicativo dell’evolversi dell’antropologia da studio statico e tassonomico a disciplina aperta alle scoperte in ambito genetico, per approdare ad un “concetto dinamico di razza”, capace di coinvolgere non soltanto le caratteristiche fenotipiche quali la circonferenza cranica, la forma dei padiglioni auricolari e le impronte digitali, oppure i dati patologici (come la maggiore morbilità), ma anche la capacità di performance intellettuale, il rendimento scolastico, la propensione alla criminalità, fino al sistema morale di riferimento dell’individuo. Le conoscenze odierne hanno permesso di considerare “pseudoscienza” buona parte di tali teorie (sottostanti, ad esempio, ai celebri studi sui gemelli), declinate da Fischer e collaboratori, com’è ovvio, in chiave biopolitica strumentale agli obiettivi che  Hitler avrebbe soltanto reso brutalmente espliciti – ma non “inventato” ex nihilo.

Se non sarà possibile ridurre ulteriormente i costi, se arriveremo a condizioni similari a quelle verificatesi durante la guerra, se queste persone, in pratica, non potranno più essere mantenute in stato confacente alla dignità umana – comprendendo non solo vitto, alloggio e igiene, ma anche le terapie –, allora sorge per noi la seria e bruciante domanda su come fare per alleggerire il fardello di certi caratteri ereditari”, afferma Fischer (H.-W. Schmuhl, The Kaiser Wilhelm Institute for Anthropology, Human heredity and Eugenics, 1927-1945, 2003). Va sottolineato con forza come la prospettiva in cui il pensiero efficientista di Fischer si colloca sia del tutto errata: muovendo dall’assioma per cui la vita dell’individuo non sia un valore in sé, il debole è visto come un “fardello”, appunto, non un soggetto da proteggere in modo particolare. Dietro la scusa della insufficienza dei mezzi per garantire una vita “dignitosa” ai pazienti, è piuttosto evidente l’intenzione di sbarazzarsi dei pazienti stessi, mediante sterilizzazioni ed eutanasia (quella che il regime nazista metterà in pratica con l’Aktion T4). Quale sia la nobiltà d’animo di chi opera in ambito medico con queste convinzioni, ognuno può giudicarlo.

Gli studiosi che legano storicamente il proprio nome all’Aktion T4 sono il giurista tedesco Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, autori della notissima opera a quattro mani Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens, “Il permesso di sopprimere le vite senza valore” (tradotta in italiano nel 2012, per i tipi di Ombre Corte). Non si tratta di intellettuali organici al sistema: Binding muore infatti nel 1920, anno di pubblicazione del volume, e Hoche non si può definire certo nazista. Tuttavia, l’autorevolezza della loro riflessione in un clima da decenni impregnato di darwinismo eugenista li rende “ispiratori” dello sterminio praticato negli anni seguenti ai danni di coloro la cui vita è giudicata priva di scopo e di utilità; una vita cui è preferibile la “morte compassionevole”, Gnadentod.

Come Lucetta Scaraffia ha efficacemente sottolineato sull’Osservatore Romano, gli echi odierni di una simile tesi – oggi, che si selezionano (di fatto) embrioni e feti “difettosi” per eliminarli, oggi che la vita di un disabile è ritenuta dai giudici fonte di intrinseca sofferenza – sono enormemente inquietanti. Lungi dal costituire una reductio ad Hitlerum volta a troncare il confronto su questi temi, il paragone con le politiche del Nazismo dovrebbe stimolare la riflessione autocritica della cosiddetta “eugenetica liberale”, concetto che esprime, in contrapposizione con i programmi eugenetici coattivamente imposti dai governi, una “opportunità” per il cittadino di avvalersi di servizi sanitari che gli consentano di perseguire, per la propria discendenza, modelli di ottimalità conformi alla propria, personale valutazione.

Chi pensasse che la sensibilità dei giorni nostri sia radicalmente differente e certi scenari definitivamente scomparsi, rapidamente dovrebbe ricredersi: il tabù dell’eugenetica ha investito soltanto le pratiche coattive eclatanti, che apertamente confliggono con l’impostazione, generalmente liberale, dell’Occidente. Non ha però colpito in egual misura i due assunti di fondo di Hoche, di Fischer, dei positivisti e scientisti che li hanno preceduti e seguiti: l’indegnità della vita a qualsiasi titolo “imperfetta” e la cieca fiducia nell’infallibilità della diagnosi medica di “incurabilità” dei soggetti malati. Eppure, anche oggi gli episodi di difficile spiegazione – risvegli dallo stato vegetativo permanente, sopravvivenza sul lungo periodo di neonati catalogati come non vitali – non mancano e suggeriscono prudenza nel trattare le risposte della scienza medica come “superdogma”. Inoltre, da un lato le terapie di sostegno e di recupero per disabili e malati mentali, dall’altro le cure palliative per i pazienti terminali, inducono a rivedere (anche da un punto di vista strettamente laico) il giudizio di “indegnità” relativo a quelle vite che, per la competenza ed il generoso impegno di molti, sono adeguatamente accompagnate e valorizzate nella loro  insopprimibile ricchezza.

Il valore intrinseco della vita umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, deve essere affermato con forza proprio laddove le teorie eugenetiche oggi riaffiorano con prepotenza, cercando  spesso il suffragio della medicina e l’avallo del diritto. Ad oggi manca, fortunatamente, la praticabilità materiale di una eugenetica cosiddetta “positiva”, consistente nella scelta dei geni ottimali per ottenere nel nascituro certe qualità fisiche ed intellettuali (nella speranza che anche laddove la PMA eterologa è consentita, tale via non sia battuta selezionando i gameti dei donatori), e la “riparazione” di geni difettosi appare, per ora, fantascienza. Può peraltro risultare sorprendente che, nel dibattito giuridico al riguardo, chi è sfavorevole ad una futuribile selezione e manipolazione del genoma umano adotti alcune motivazioni che fondano la censurabilità morale della PMA: come osserva Habermas, l’individuo non più frutto del “caso” ma pianificato nel suo DNA non sarebbe veramente libero, per difetto di identificazione piena col suo corpo, e da “soggetto” diventerebbe un mero “oggetto” della volontà di un genitore che – senza il suo consenso – si è atteggiato a scimmiottare l’atto creatore. All’interno del nostro ordinamento, una simile “appartenenza” del nato a chi ne ha progettato la venuta al mondo confliggerebbe, tra le altre cose, con la previsione del codice civile che, nel disciplinare la potestà genitoriale, impone di tenere nel giusto conto le capacità ed inclinazioni naturali dei figli.

L’eugenetica dei nostri giorni, quindi, consiste in pratiche non positive ma “negative”, volte a prevenire l’insorgenza o la trasmissione di certe patologie evitando direttamente la nascita di individui malati, attraverso la contraccezione, il mancato impianto di embrioni ottenuti in vitro e naturalmente l’aborto, oppure intervenendo a valle con la legalizzazione di pratiche di eutanasia attiva e passiva.

Nel nostro Paese, una legislazione esplicitamente eugenetica non ha mai ricevuto spazio. Il codice Rocco, prima della promulgazione della legge n. 194/1978, puniva la procurata impotenza alla procreazione; ancor oggi, l’art. 583 c.p. sussume la procurata perdita della capacità procreativa nella fattispecie di lesione personale gravissima: nessuna sterilizzazione coatta dunque è lecitamente praticabile, poiché costituisce reato, e la legge che dovesse prevederla rischierebbe un serio contrasto con il secondo comma dell’art. 32 Cost. (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”). La citata legge 194, poi, espressamente prevede che l’interruzione volontaria non è un mezzo per il controllo delle nascite e, potendo la donna chiedere l’IVG solo a tutela della propria salute psicofisica – almeno sulla carta – dottrina e giurisprudenza concludono generalmente per l’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un aborto “eugenetico”. Quanto tale interpretazione della legge 194 sia flatus vocis, e l’aborto sia di fatto divenuto, oltre che mezzo contraccettivo, strumento per eliminare la malattia sterminando i malati, è sotto gli occhi di tutti. Come corollario del wishful thinking suddetto, la costante giurisprudenza di Cassazione costante nega un qualsivoglia “diritto a non nascere”. Lo nega persino in sentenze, quali (da ultimo) la n. 16754/2012, che riconoscono agghiaccianti profili di risarcibilità da nascita “sbagliata” e indesiderata (wrongful birth).

A livello sovranazionale, sembra permanere un clima di sfavore nei confronti dell’eugenetica: nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) s’incontra il divieto di pratiche volte alla selezione degli esseri umani; la Convenzione europea di bioetica, ratificata in Italia dalla legge n. 145/2001, vieta ogni intervento di modifica del genoma dei discendenti ed il ricorso alle tecniche di PMA per la scelta del sesso del nascituro, salvo per evitare una malattia genetica legata al sesso.

Certo è la legge n. 40/2004 sulla PMA a porre oggi in modo più vivido e drammatico le questioni etiche relative all’eugenetica. La possibilità infatti di operare la diagnosi preimpianto consente, di fatto, la selezione dei soli embrioni sani o comunque ritenuti fit. Per evitare ciò, la legge vieta di selezionare gameti o embrioni, nonché interventi di alterazione del patrimonio genetico o volti (ammesso sia possibile) alla predeterminazione di alcune caratteristiche. Giova rammentare che anche il nuovo Codice di deontologia medica, in vigore dal 2006, proibisce le pratiche di fecondazione assistita ispirate a criteri eugenetici o di “solidarietà etnica”.

E’ singolare che, a fronte di una lettera normativa chiara e confermata dalle Linee guida ministeriali (pur nell’ambito di una procedura, quale la PMA, moralmente censurabile), alcuni giudici abbiano ritenuto di orientarsi diversamente, opinando che la diagnosi preimpianto sia un mero accertamento diagnostico, uno strumento quindi neutro rispetto agli scopi degli interessati, da ritenere pertanto ammissibile se finalizzato a tutelare la salute della donna; esso ricadrebbe, infatti, sia nel diritto dei coniugi all’informazione sullo stato di salute degli embrioni, sia nel più generale principio del “consenso informato” in tutte le fasi dei trattamenti sanitari. Così, le note vicende giudiziarie e mediatiche dell’ultimo periodo (dal ricorso Costa-Pavan alla Corte Europea dei Diritti Umani, alle pronunce del Tribunale di Cagliari) mostrano in modo inquietante che, sebbene il contesto nazionale e internazionale rimanga formalmente ostile all’eugenismo e alle pratiche che ne discendono, i tentativi di far rientrare “dalla finestra” la selezione eugenetica che era uscita “dalla porta” è troppo forte. E, sia consentito dirlo, in una temperie culturale individualista e relativista, che punta ad un’aristeia efficientista incentrata sulla salute fisica, piuttosto che sull’armonico sviluppo della persona, non può che essere così. A noi la scelta se proseguire l’opera lasciata incompiuta dagli eugenisti novecenteschi, o dare all’uomo la speranza di una dignità indipendente dalla sua fitness.

di Ilaria Pisa

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