21/05/2025 di Toni Brandi

«Sono un malato termine, voglio decidere se morire con il suicidio assistito». La risposta di Toni Brandi

Nei giorni scorsi ho ricevuto il messaggio di un cittadino affetto da una grave patologia, che dopo aver visto una puntata contro il suicidio assistito della Rubrica "Scoppia la Balla" mi ha scritto quanto segue:

 

«L'argomento dovrebbe essere trattato da chi è nella condizione di fare quella scelta e non essere usato per fini politici. Che ne sa [Toni Brandi] di cosa subisce giornalmente un malato terminale e della condizione fisica in cui versa? Quando non c'è alcuna cura al proprio male, quando vivi il dolore del corpo, quando non riesci più a mangiare, quando la morfina ti è compagna? Penso che il malato debba e possa decidere in modo autonomo».

 

Si tratta di parole e di una considerazione che mi hanno toccato nel profondo. Ha ragione, è un tema complesso. E’ facile parlare, mentre è molto più difficile vivere ogni giorno nella sofferenza, nella disperazione, nella debolezza del corpo, nella stanchezza dell’anima. Chi non ha provato certe esperienze dovrebbe fare grande attenzione nel parlarne. Ma mi permetto di raccontare a voi lettori – e chi mi ha scritto questo messaggio - con umiltà, un frammento della mia storia.

Nel 2013 ho avuto un cancro al pancreas. Un male che ha messo in discussione il senso della vita. Ho vissuto dolori insopportabili, affrontato cure estenuanti con forti antidolorifici, conosciuto la paura, l’ansia, una profonda depressione. Ho pensato anch’io di farla finita. Se allora fosse esistita una legge sul suicidio assistito, probabilmente l’avrei presa in considerazione. Ma, grazie a Dio, ho avuto accesso a cure palliative efficaci, sono stato circondato dall’amore di mia moglie, degli amici, e non c’era nessuna legge pronta a offrirmi la morte come “soluzione”. Oggi sono ancora qui.

E la mia vita, anche se segnata, la considero un dono. Ed è riflettendo su quella esperienza che mi rendo conto che quando si ha più paura della vita che della morte, c’è qualcosa che non va: non ero lucido, nella sofferenza, nell’ansia, nella paura si perde il libero arbitrio. Ed è anche per questo che non riesco a considerare il suicidio assistito una conquista di civiltà. Perché ho capito che spesso è la solitudine, la disperazione, la paura, il sentirsi un peso a far desiderare la morte. È lì che si deve intervenire: con presenza, cura, amore.

Capisco il desiderio di autonomia, anch’io credo nell’autodeterminazione, ma essa non può essere assoluta. Se l’autodeterminazione fosse assoluta dovremmo lasciar suicidare i depressi e mettere a digiuno gli anoressici e se l’autodeterminazione è davvero tale, deve essere garantita in ogni momento e non compromessa da condizioni esterne (sofferenza, solitudine, pressione sociale, mancanza di cure).

La morte non è libertà, ma fuga dalla realtà, una scorciatoia fatale. Nel suicidio assistito, lo Stato non si limita a “lasciare liberi”, ma riconosce e certifica la morte come soluzione. Ogni legge ha un valore pedagogico, non è mai neutra: educa, orienta, indica ciò che percepito come bene comune, ma il suicidio assistito è veramente bene comune? Non crea un precedente per cui la vita di alcuni può essere considerata “non più degna”? Non rischia di spingere malati, anziani, persone sole a scegliere la morte piuttosto che la Vita? Persino la sentenza 135/2024 della Corte Costituzionale ha avvertito del pericolo che legalizzare il suicidio assistito può esporre malati e anziani ad una pressione sociale che li può convincere di essere un peso e di decidere così di farsi da parte.

Se oggi lo Stato certifica che la vita può essere “interrotta” in certi casi, domani sarà normale proporre la morte a chi è fragile, povero, disabile, depresso, solo. Non è un’ipotesi teorica: è già accaduto in Canada, Belgio, Olanda... Si è partiti dai casi terminali e si è arrivati a eutanasie per depressione, disabilità, adolescenza difficile, malati anoressici, malati psichici. Il confine si sposta. Sempre.

Ricordo DJ Fabo che scrisse nella sua ultima lettera testamento: «le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora» ed il suo fisiatra dichiarò che «nessuno è stato in grado di dare a Fabo la motivazione sufficiente a continuare ad amare la sua vita». Cosa ci dice questo? DJ Fabo voleva veramente morire?

Quando si legalizza la morte, anche involontariamente, si manda il messaggio: forse è meglio se te ne vai. Ed è un messaggio pericolosissimo, specie per chi vive già nell’ombra. Io credo che la vera civiltà non stia nel permettere di morire, ma nel fare tutto il possibile perché nessuno debba desiderarlo.

Auguro a questa persona che mi ha scritto che ogni giorno della sua vita sia vissuto con dignità, che possa sentire accanto volti veri, mani amiche. Gli sono molto vicino anche se non ci conosciamo, la sua vita anche così com’è ha un valore immenso. 
 

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