Negli ultimi mesi il tema del fine vita è tornato prepotentemente al centro del dibattito pubblico, tanto in Italia quanto all’estero. In diverse Regioni italiane sono stati presentati disegni di legge per legalizzare il suicidio assistito (in Toscana è stato addirittura approvato), e in Parlamento – con ogni probabilità già dal mese di luglio – si inizierà a discutere un nuovo disegno di legge sul tema. Intanto, da più parti, si moltiplicano le pressioni ideologiche per sdoganare il fine vita come “diritto”, facendo leva su narrazioni spesso parziali o addirittura ingannevoli.
Per fare chiarezza, smascherare le menzogne più diffuse e offrire una visione lucida e fondata sulla questione del fine vita, abbiamo intervistato Antonio Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia. Con lui abbiamo affrontato, punto per punto, i dubbi, le perplessità e i pericoli concreti legati a eutanasia e suicidio assistito.
Perché imporre a qualcuno di vivere una sofferenza che non vuole più sopportare?
«Non si tratta di “imporre” la sofferenza, ma di prendersi cura di chi soffre. Questo è un compito dello Stato, delle leggi, della società intera. Pro Vita si batte per uno Stato che cura, non per uno Stato che lascia morire. Vogliamo eliminare la sofferenza, non il sofferente. Le cure palliative alleviano il dolore, ma spesso il vero nemico è la solitudine, la paura, l’abbandono. Una persona amata e accompagnata non chiede di morire. Lo testimonia la dott.ssa Vittorina Zagonel, oncologa per 40 anni e ex-dirigente dell’Istituto oncologo veneto: nessun paziente anche terminale ha mai chiesto di morire, perché ogni malato era seguito da medici, infermieri, psicologi e assistenti spirituali. Il dolore fisico si curava, quello interiore si accoglieva. Niente accanimento terapeutico, niente scorciatoie, solo dignità, fino alla fine. La vera la vera civiltà non sta nel permettere di morire, ma nel fare tutto il possibile perché nessuno debba desiderarlo».
Non è più crudele costringere alla vita chi desidera morire con dignità?
«La vera crudeltà è far credere a una persona fragile che la morte sia l’unica via. La dignità sta nel sentirsi amati anche nella debolezza. La dignità non si perde con la malattia la si perde con l’abbandono. La dignità è connaturata, indissolubilmente legata alla persona umana. Un bimbo dipendente dai genitori ha dignità, così come un anziano o un malato la mantiene. La dignità non dipende dalla salute, dall’autonomia, dal successo. Una società civile protegge, non scarta. La compassione vera accompagna, non elimina. Con cure e vicinanza, il desiderio di vivere rinasce. Lo conferma Dario Mongiano, 62 anni, in carrozzella da quando non ricorda, che si è presentato davanti la Consulta. Ha detto “E se io un giorno fossi solo e mi sentissi abbandonato e lo Stato mi offrisse la morte? Potrei cedere in un momento di disperazione… e non potrei tornare più indietro”. La morte non è libertà ma una fuga dalla realtà, una scorciatoia fatale».
Se una persona lucida e consapevole chiede di morire, chi è lei per impedirglielo?
«L’errore è affrontare questo tema con la freddezza ideologica che finge empatia. Bisogna partire dalla realtà, non dalle teorie o proiezioni ideologiche. Da sani si pensa che sia meglio morire che soffrire, ma quando si ha più paura della vita che della morte e si è nel dolore e nella disperazione, non si è né lucidi né liberi: si cerca solo una via di fuga. Anche i più consapevoli possono cadere nella disperazione. Dire “sì” al suicidio non è libertà, è resa. Se l’autodeterminazione fosse davvero assoluta, lasceremmo suicidarsi i depressi e a digiuno gli anoressici. Pensiamo a quell’uomo sul Golden Gate Bridge di San Francisco che si stava buttando giù: dopo un’ora di ascolto, ha scelto di vivere. Questo è il sentire pubblico, a chi vuole farla finita si tende la mano, non si concede la morte».
Ma vi sono oggi medicine per morire velocemente se una persona malata vuole morire, perchè non può?
«La medicina serve a sostenere la vita, non a finirla. Se la medicina si fosse arresa alle malattie inguaribili, oggi non avremmo terapie oncologiche avanzate né cure del dolore. In Olanda, dopo la legge sull’eutanasia, le cure palliative sono crollate (parola dell’ex ministro Els Borst). Quando si sceglie la morte, si smette di cercare soluzioni. Oggi si parla perfino di vaccini contro il cancro: ti arrendi oggi… e domani potrebbe esserci la cura. Ripeto, non si elimina il sofferente: si elimina la sofferenza. L’uomo non è un’isola. Viviamo in relazione con gli altri e le nostre scelte hanno effetti su famiglia e società. L’autodeterminazione ha valore, ma non è assoluta e se l’autodeterminazione è davvero tale, deve essere garantita in ogni momento e non compromessa da condizioni esterne, da pressione sociale (sofferenza, solitudine, pressione sociale, mancanza di cure). Ricordo DJ Fabo che scrisse nella sua ultima lettera testamento “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora" ed il suo fisiatra dichiarò “Nessuno è stato in grado di dare a Fabo la motivazione sufficiente a continuare ad amare la sua vita”. Cosa ci dice questo? DJ Fabo voleva veramente morire? Il dovere è prendersi cura, non abbandonare chi soffre».
Non è ipocrita accettare le cure palliative ma vietare il suicidio assistito?
«È profondamente diverso: le cure palliative aiutano a vivere fino alla fine, senza anticipare la morte. Il suicidio assistito, invece, toglie la vita. Il vero scandalo è che a 15 anni dalla legge 38 sulle cure palliative, secondo lo studio CERGAS della Bocconi, solo il 23% degli adulti, aventi diritto alle cure, ne ha accesso e per i bambini, denuncia la Società italiana di pediatria, appena il 15-18%. E’ chiaro che molte persone sole, abbandonate e senza cure saranno spinte a scegliere la morte piuttosto della vita. Persino la sentenza 135/2024 della Consulta avverte che legalizzare il suicidio assistito può esporre malati e anziani ad una pressione sociale che li possa convincere di essere un peso....Poi ci rendiamo conto che lo Stato italiano spende più di 30 miliardi di euro per produrre armi quando un ¼ di questa cifra basterebbe a garantire antidolorifi e cure per tutti gli aventi diritto!».
Perché lo Stato dovrebbe scegliere al posto del malato sulla sua vita?
«Lo Stato deve intervenire perché la vita è un bene comune, non solo privato. E il Bene comune riguarda tutti. Una legge non è mai neutra: educa, orienta, indica ciò che è bene per tutti. Una legge non si limita a “lasciar fare”. Una legge fa costume, ecco perché non si possono prendere casi rari e estremi che colpiscono l’opinione pubblica e poi pretendere che diventino legge per tutti. Se si legalizza il suicidio assistito, si apre la porta a pressioni su malati, anziani e disabili, che potrebbero sentirsi inutili. Sarebbero i comitati etici a decidere quali vite sono “degne”: ma nessuno Stato giusto può stabilire che alcune vite valgono meno. Anche in un letto o su una sedia a rotelle si può amare, creare, sperare. La malattia non toglie dignità: lo fa l’abbandono. La vera risposta è cura, vicinanza, rispetto».
Ma il bilancio dello Stato è limitato e le cure costano.
«La sanità deve servire tutti, non obbedire alle logiche del profitto che riducono l’uomo a un costo da tagliare. In questa visione disumana, la morte diventa “conveniente”: un veleno costa meno delle cure. Ma una società civile e giusta non sceglie chi vive in base al bilancio. Lo Stato ha il dovere di difendere la vita, non di risparmiare eliminando i fragili. Tagliare la sanità vuol dire tagliare le persone. La vera compassione rende solidali con la sofferenza altrui non sopprime colui la cui sofferenza non si sopporta».
In che modo il suo credo religioso può valere per chi non lo condivide?
«Il valore della vita umana non dipende dalla fede, ma dalla dignità intrinseca di ogni persona. È un principio radicato nella nostra cultura umanistica, non solo religiosa. Come il divieto di omicidio vale per tutti, anche il rifiuto di dare la morte deve proteggere tutti, credenti e non. Non vogliamo uno Stato confessionale, ma uno Stato che cura e non abbandona. Il filosofo John Skalko smonta le teorie del suicidio assistito con quattro concetti: 1. Non possiamo sapere se morire sia davvero nel miglior interesse della persona, data l’imprevedibilità della malattia, dei progressi medici e dei cambiamenti interiori; 2. Il desiderio di morire nasce spesso da sofferenze trattabili come depressione o disperazione che richiedono cura, non morte; 3. Ogni vita ha valore intrinseco; 4. Legalizzare il suicidio assistito mina l’uguaglianza e la tutela dei più deboli».
Lei hai avuto un’esperienza particolare, ne vuole parlare?
«Si, nel 2013 sono stato operato per un cancro al pancreas. Ho vissuto l’ansia, la paura, la depressione e dolori insopportabili. In quel tempo ho desiderato di farla finita. Ma oggi sono vivo grazie alle cure palliative, all’amore di mia moglie, degli amici, e – grazie a Dio – al fatto che non esisteva una legge che mi avrebbe permesso di compiere un gesto estremo, irreversibile, di cui non avrei mai potuto pentirmi. Oggi sono ancora qui. E la mia vita, anche se segnata, la considero un dono. Ed è riflettendo su quella esperienza che mi rendo conto che quando si ha più paura della vita che della morte, c’è qualcosa che non va: non ero lucido, nella sofferenza, nell’ansia, nella paura si perde il libero arbitrio. Ed è anche per questo che non riesco a considerare il suicidio assistito una conquista di civiltà. Perché ho capito che principalmente è la solitudine, la disperazione, la paura, il sentirsi un peso a far desiderare la morte».
Ma l’Europa e il mondo ci chiedono di essere ai passi con i tempi ed il suicidio assistito va legalizzato
«Assolutamente falso. L’esperienza dimostra che quando lo Stato legalizza la morte, i paletti crollano. È successo nei pochi Paesi che hanno introdotto eutanasia o suicidio assistito: solo 12 su 194 nel mondo. Chiediamoci: perché 182 Paesi rifiutano questa deriva? Perché la coscienza collettiva mondiale è contraria. Il piano inclinato è reale: si parte dai malati terminali e si arriva a uccidere depressi, disabili, alcolisti, anoressici, minori, malati psichici e persone stanche di vivere. La morte dilaga. In Canada, i casi sono passati da 1.982 nel 2016 a oltre 15.000 nel 2024. Assicurazioni non pagano le cure ma offrono il suicidio, è successo in California, a Stephanie Packer, madre di 4 figli, fu negata la chemio, ma offerto il suicidio assistito. In Canada oggi si propone la morte a chi è depresso e disabili chiedono la morte perché non ricevono cure. In Olanda, 1 caso su 5 di eutanasia, avviene senza consenso. Sempre in Olanda, Noa Pothoven, 17 anni, morì per eutanasia dopo gravi traumi psicologici. Vorrei terminare con alcune domande ai lettori. Dietro al suicidio assistito c’è il risparmio sanitario o eliminare chi non produce? Vogliamo che l’Italia sia il 13° Paese a scegliere la morte, contro il giudizio del mondo intero? Oggi il 77% dei malati non accede alle cure palliative. I suicidi giovanili aumentano. Qual è la priorità di uno Stato civile? Facilitare il suicidio o prevenirlo?».