13/09/2023 di Alessia Battini

Il Servizio Sanitario Inglese parla di “mamme trans” e poi fa dietro front. Ma il pericolo è tutt’altro che scampato

In Inghilterra la Health and Wellbeing alliance, un corpo gestito congiuntamente dal dipartimento della salute, lo UK security agency e l’NHS (il Servizio Sanitario Nazionale inglese), ha commissionato un rapporto a una fondazione LGBT capeggiata dal dottor Paul Martin. La ricerca si concentrava sul tema dei servizi di maternità per le persone trans e non-binarie, e riportava le risposte di 121 utenti: il 30% di questi ha dichiarato di non aver ricevuto alcun supporto medico durante la gravidanza. Inoltre, dai risultati del rapporto è emersa l’indicazione di usare un linguaggio più inclusivo come “allattamento al petto” invece di “allattamento al seno”, o di inserire i pronomi insieme ai nomi sui badge, per far sentire più accolte tutte quelle persone che non si identificano come donne.

Quando però il rapporto è stato riesaminato dalle università di Oxford, Bristol e Coventry, gli studiosi delle stesse hanno sollevato diversi dubbi: le persone intervistate avevano risposto durante un periodo lungo trent’anni, e alcune non si riconoscevano nemmeno come trans o non-binarie al momento della gravidanza. Inoltre, seppur il 30% degli intervistati avesse effettivamente risposto “no” alla domanda «hai ricevuto assistenza dall’NHS o da ostetriche private?», l’82% ha dichiarato di aver ricevuto cure prenatali, dimostrando che le domande erano talmente imprecise da aver condotto a risultati confusi, poco affidabili.

È bastato poi che il 30% delle persone avesse presentato un richiamo per fare sì che la fondazione LGBT spingesse per l’utilizzo di un «linguaggio inclusivo per ogni utente del servizio   » e, per dimostrare l’urgenza di questo provvedimento, hanno richiamato il caso di un’utente che, avendo ricevuto una lettera rivolta alle “donne” incinte, temeva che sarebbe stata esclusa dalle cure.

Eppure, gli esperti delle università già citate ritengono che l’utilizzo di un linguaggio cosiddetto “inclusivo”, ovvero che faccia riferimento al genere invece che al sesso, rischierebbe in realtà di aumentare le disuguaglianze e di diminuire l’accessibilità alla comunicazione in ambito sanitario a tutte quelle donne che parlano l’inglese come seconda lingua, o che hanno un disturbo dell’apprendimento o una scarsa alfabetizzazione sanitaria. Precisano, rivolgendosi all’NHS, che l’esperienza di una piccola minoranza di utenti di questi servizi non dovrebbe essere il riferimento su cui basare la policy dell’informazione valida per tutti. Criticano infine il rapporto per essere metodologicamente scorretto e scritto con un linguaggio basato sul genere, ancora contestato nella comunità scientifica.

«È chiaro che gli autori dello studio hanno buone intenzioni, ma sicuramente non intenzioni scientifiche», questo è quanto ha dichiarato al Telegraph Kathryn Webb, dell’istituto di psicologia clinica dell’università di Oxford. Secondo lei l’NHS è una grande fonte di orgoglio nazionale, non solo perché è ad accesso gratuito, ma anche perché è riconosciuto come leader mondiale negli standard medici.

In un articolo pubblicato dal British Journal of Midwifery, lei e i suoi coautori hanno fatto riferimento a un solo studio, lo ITEMS Study, come esempio per evidenziare quanto un rapporto, privo di una accurata ricerca scientifica alla base, possa influenzare in modo significativo il cambio della policy dell’NHS. Infatti, inizialmente erano state assegnate addirittura 100.000 sterline di finanziamento per istruire lo staff del servizio maternità ad una maggiore inclusività. Quando però sono stati sollevati dubbi dal gruppo di lavoro di maternità “With Women” questi cambiamenti proposti sono stati interrotti.

Comunque, secondo la ricercatrice, questo caso ha creato un pericoloso precedente, oltre a non essere d’aiuto a nessuno poiché tutti i gruppi, anche quelli minoritari, hanno diritto a un’assistenza sanitaria le cui basi si fondano su ricerche serie e scientificamente corrette.

Questo studio non è un errore isolato, ma riflette un progetto più ampio: lo possiamo capire leggendo i titoli di alcuni giornali inglesi. Un esempio è proprio Stonewall, l’associazione LGBTQ+ che attualmente scrive le policy dell’NHS e che alcuni hanno interpretato come il segno che la politica potrebbe rimpiazzare la scienza nell’ambito della policy sanitaria. Inoltre, è ancora particolarmente accesa la discussione per quel che riguarda le decisioni inerenti alla questione del Covid, che pare sia tornata in auge di recente.

Insomma, attualmente l’NHS è in difficoltà, ma la ricerca resta fondamentale: effettuare dei cambiamenti in modo affrettato, basandosi su ricerche poco affidabili è inaccettabile, e anche i buoni dati non possono essere usati per arrivare a conclusioni che esulano da ciò che è stato empiricamente verificato. Sostanzialmente, se si accettano degli standard di ricerca di bassa qualità per proporre innovazioni e cambiamenti, perché in futuro dovremmo continuare a finanziare dei progetti rigorosi e adeguati se è già stato dimostrato che si può risparmiare denaro e affidarsi a studi meno costosi e più “politicamente corretti”?

Gli standard devono sempre essere mantenuti alti nel campo della ricerca dei servizi sanitari, anche quando pensiamo di conoscere già la risposta, non importa quanto ne siamo convinti, e anche quando non ci piace il risultato che otteniamo.

 

 

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