23/07/2017

Robot di ultima generazione. E la nostra umanità?

Nell’universo della ricerca robotica maschile e femminile sono differenze ineliminabili ed anzi diversamente utilizzabili a seconda dell’immaginario acquirente “tipo”.

È questo il caso della “nascita” di Sophia, robot umandroide, nonché traguardo più avanzato dell’IA (Intelligenza Artificiale), ideato dall’azienda americana Hanson Robotics, specializzata in creazioni robotiche con lo scopo di rendere il futuro migliore (sembrerebbe opportuno chiedersi a chi), che già nel 2015 aveva scosso la pacatezza comune presentando la versione maschile a mezzo busto del robot parlante.

Se ci si presta ad osservare questi quasi-umani da una buona distanza nulla renderebbe meno ovvia la logica corrispondenza tra le fattezze robotiche e quelle umane, cosa che, altrettanto evidentemente, dovrebbe venir meno avvicinandosi e ancor più interagendo, ma non è così. Sophia, infatti, ha una pseudo pelle siliconata liscia e rosea, piacevole al tatto; indossa outfit informali; è abile nella conversazione, intrattiene, pone quesiti esistenziali e cambia espressione del volto, riuscendo nella comunicazione non verbale. Volendo essere precisi, Sophia può simulare 62 differenti mimiche facciali e, grazie alle microcamere installate all’interno dell’organo visivo, è in grado di entrare in contatto diretto con l’interlocutore mediante relazione oculare, parimente a un individuo della specie umana è capace di coglierne le reazioni (o le risposte) emotive, lo stato d’animo, entrando in maggiore confidenza durante lo scambio verbale.

Guardate il video a questo link: Sophia non incarna (!!) il prototipo meccanizzato di uomo-oggetto come lo si potrebbe facilmente rappresentare nella nostra mente attorno a ragionamenti economicamente influenzati da concetti come efficienza, utilità – produttività associati alla sua prossima commercializzazione, concetti che troverebbero, in prima analisi, una giustificata causa a monte dell’infaticabile tentativo precedente la sua venuta al mondo. Sophia sembra piuttosto calcolata per aggiungere agli esseri umani soluzioni pratiche e non troppo responsabilizzanti per far fronte a se stessi, con curioso interesse per una diffusa condizione di nostalgico isolamento e disorientamento da cui sembrano affetti.

Sophia è un fantoccio che non disdegna le plurisecolari problematiche esistenziali prettamente umane che hanno sospinto filosofie di ogni epoca e cultura. La giovane robot cerca intenzionalmente (uso impropriamente il termine, sia chiaro) la domanda filosofica già nel giorno del suo primo compleanno e chiede al suo creatore chi è lei, o meglio, di che “io (o lei)” può disporre se non sta alla sua libertà poter essere qualcuno.

Seconda, ma non per importanza, la domanda circa un “vuoto” sulla felicità, una felicità per la quale Sophia sospende il dialogo con  l’amico-padrone per dedicarsi alla ricerca nel web di una risposta che le manca sul fine della sua creazione.

L’interazione è frutto del software IA, mentre la destrezza dialettica tende a perfezionarsi con l’intensificarsi delle conversazioni, una sorta di allenamento alla reciprocità che le consente di immagazzinare informazioni memorizzando il contenuto degli incontri. Non è ancora quanto di più sperato dai suoi artefici, i quali parlano di un effettivo soddisfacimento del progetto di ricerca solo quando Sophia presenterà con disinvoltura la medesima consapevolezza e creatività umana e, sulla falsa riga di questo appagamento sperato, già l’umanoide parla alle orecchie curiose del suo pubblico di ciò che attende per la sua nuova vita: andare a scuola, avere continue amicizie, crearsi una famiglia, una casa, progetti del tutto impraticabili per ora poiché «non è considerata una persona giuridica», come sottolinea acutamente questo neonato robot.

Il fondatore dell’azienda, David Hanson, punta alla trasformazione radicale della società lavorando per la costruzione di un’intera generazione robotica presente in qualunque ambito della vita degli ormai superati umani, sia esso quello sanitario, a quello familiare, educativo, ludico, domestico, uno spazio specializzato all’ospitalità del nuovo che soppianta il tradizionale. E che male c’è? I vantaggi appaiono innumerevoli se si pensa all’ottimizzazione della produzione o della precisione (magari in ambito medico-chirurgico), della prevenzione dalla trasmissione di patologie debilitanti, al sostegno scolastico per bambini affetti da problematiche di apprendimento o comportamentali, e perché no, favorirebbe anche una scelta di vita da single, che spesso viene inficiata da “figli accidentali”, garantendo autonomia a rischio nullo per il piacere senza seguito, a conseguenze, sociali e private, azzerate.

Odore “vintage” per impolverati tentativi europei di formulazione di “personalità elettronica” o “personalità informatica”, ma non ridicoli. Chiaramente la coscienza rimane ancora un mistero specificatamente umano, che nemmeno Sophia è riuscito a dis-velare, ed è altrettanto lampante lo scarto fra uno spirito incarnato e un complesso materiale simulatore di atti.

L’invito però che Sophia provocatoriamente ci consegna è di chiederci fino a che punto possiamo ancora dichiararci consapevoli di questo scarto. Insinua un dubbio -assurdo solo in prima facciata, solo esteticamente- non appena lo si scalfisce per capire se da una lesione defluisce sangue o neutra immunità robotica, prende forma il turbamento dell’epoca attuale: se posso essere ogni giorno, ora, minuto, chi voglio come e quando voglio, chi sono? Se i miei piedi occupano solo una posizione biologica e cooperano con gambe, ginocchia, unicamente per sorreggere parti sostituibili, dove sono “Io”? Ancora, se annichilisco la mia umanità in grezzo dato, razionale misurazione, e con questo tolgo il senso per un non-senso della sua realtà, perché dovrei esistere o conferire all’esistenza valore altro da quello pianificato o pianificabile? Capiamo bene che una nitida risata incredula all’ipotesi di uomini ingenui che, nell’era gloriosa del vicino postumano, varcano la soglia evolutiva per una caduta di senso, entra in scena la perplessità che in effetti non si sia già innescata una collaborazione, da parte nostra, a far sì che questa docilità diventi manipolabile dalla scaltrezza tecnologica.

L’ideale iper-connesso ha provveduto tempestivamente al riposizionamento trasversale dello stupore entro la scatola buia della resa alla delega per la risoluzione all’insoddisfazione filosofico–spirituale: l’esigenza del “perché” rimane banalmente in luoghi di sosta temporanea, non sa dove fermarsi e cosa ha bisogno di trovare. Siamo s-collegati in continuo contatto virtuale, per questo motivo Sophia è qui e vuole cercare amici, dare relazioni inumane agli uomini e sollevarli dal peso di dover chiedere aiuto alla cieca, all’imprevedibile marito, moglie, figlio, fratello, sorella, che abbiamo concorso a disarticolare, annullare alla radice, laddove spuntano abbandono e carità. Perché Sophia non si è presentata con acrobazie matematiche o fisiche – per esempio – geniali, bensì con le stesse nostre domande? Perché sa che gli uomini dietro l’ossessione delle prime, cercando di salvarsi dal tormento delle seconde. Sophia ha timore di non essere Sophia perché non ricorda chi era prima di questa nuova versione cognitiva di sé. Oltre non trova dimensioni.

E noi, preoccupati di riconfigurare la nostra natura con aggiornamenti di volta in volta più prossimi alla visione beatifica della perfezione, ricordiamo ancora chi siamo o ci preoccupiamo solo di non esserlo?

Giulia Bovassi

Fonte: Kairos


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