17/05/2013

Quello che le riviste scientifiche non sanno

Recentemente sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine due articoli sul suicidio medicalmente assistito. Entrambi prendono spunto dall’introduzione per legge in alcuni stati degli USA (Oregon e Washington) della pratica del suicidio assistito in adulti affetti da patologie con  prognosi infausta in breve tempo.
Il primo articolo dal titolo “Implementing a Death with Dignity Program at a Comprehensive Cancer Center” , descrive la casistica a riguardo presso il Seattle Cancer Care Alliance, il centro oncologico della Fred Hutchinson–University dello stato di Washington, che cura pazienti provenienti dal nord-ovest degli USA. Dal marzo 2009 al dicembre 2011 114 pazienti hanno chiesto informazioni sul programma; di questi, 30 sono morti prima di dare seguito al programma, 44 non l’hanno proseguito;  i restanti 40 hanno completato il percorso morendo in seguito ad una somministrazione di secobarbital.
I pazienti reclutati sono “bianchi, maschi con un elevato grado di istruzione”. L’articolo sottolinea che i pazienti e le loro famiglie sono stati grati di ricevere la prescrizione letale. La perdita della dignità e l’impossibilità a prendere parte ad attività piacevoli, “fonte di gioia” i motivi all’origine della scelta di morte. Pur pubblicato su rivista scientifica l’articolo pecca di metodo: non si evince dai dati messi a disposizione da quali patologie fossero affetti i malati. Inoltre quello che colpisce è la assoluta “normalità” con cui viene descritta la casistica: cioè che dei pazienti chiedano e ottengano la collaborazione del proprio medico a morire anziché a vivere; anzi chiedano il suicidio medicalmente assistito e ottengano in realtà solo la  prescrizione del farmaco letale, perché solo 4 dei 30 pazienti che hanno percorso il programma fino alla fine sono stati davvero assistiti dal medico; gli altri 26 hanno ottenuto solo la prescrizione e sono morti soli.  Tutto questo su una rivista scientifica internazionale che tratta di medicina. Senza che questo crei domande negli Autori. La stessa rivista, nella rubrica “Clinical Decisions” propone un caso clinico pure  intitolato “Physician-Assisted Suicide”. Il caso clinico illustrato è quello di un paziente di 72 anni affetto da tumore al pancreas con metastasi al momento della diagnosi ai linfonodi regionali e al fegato. Il paziente assume oppioidi che controllano bene il dolore addominale ed è al corrente della sua prognosi. Dopo discussione con la sua famiglia decide di chiedere al proprio medico informazioni riguardo al suicidio assistito, dato che nello Stato dove vive questo è permesso. Quello che segue è una domanda sulla liceità della scelta di morte: il suicidio medicalmente assistito non può essere consentito oppure il suicidio medicalmente assistito può essere consentito. Oltre alle argomentazioni degli esperti chiamati a difendere le rispettive posizioni (per par condicio?) segue un frequentatissimo blog in cui ognuno è libero di fornire la propria opinione.

Ci colpiscono alcune ambiguità contenute nella pubblicazione e nel relativo dibattito, che potete seguire sul link (http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMclde1302615):  l’uso strumentale dei termini, cioè definire un atto di eutanasia “Suicidio medicalmente assistito” non è altro che edulcorare il nome di un atto per rendere meno violenta la percezione dell’atto stesso; la confusione (ad hoc?) tra suicidio assistito e cure palliative, il cui fine ultimo è l’esatto opposto del suicidio, cioè l’affermazione della dignità del paziente anche quando la patologia non é più guaribile: le cure palliative sono nate e si sono affermate al fine di contenere o eliminare sintomi che potrebbero essere insopportabili in una fase della malattia in cui non si può più ipotizzare la guarigione, l’esatto opposto del suicidio.
La questione di fondo che viene elusa da questi due articoli è: che scopo ha ancora oggi la medicina, l’esercizio della nostra professione.  La medicina è nata da una speranza: che curare e assistere  vale sempre la pena, fino alla fine, perché l’uomo ha una dignità che è data dalla vita stessa, dal solo fatto che lui esiste, perché è stato fatto. Per questa dignità riconosciuta il medico non può creare la vita come nemmeno dare la morte (Ippocrate ci è maestro). E l’utilità della medicina sta nel rispetto di questo dato ontologico. Pena lo scadere  della professione a mera tecnica, tomba della medicina stessa, oltre che del malato.  Anche per noi, professionisti della salute, è la ripetitività del dramma che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno a mettere a dura prova la speranza, come scriveva Cesare Pavese: “La vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica le stesse mancanze. E’ un fastidio, alla fine.. [..]. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le gambe”.  Cioè: senza speranza non si può fare il mestiere che facciamo, non solo, non si può vivere.

Editoriale a cura di F. Villa

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