17/09/2019

Quando la vita è più forte di tutto. Accade in Repubblica Ceca

Il bene non fa romanzo, usava ripetere Enzo Biagi per spiegare il motivo per cui le cattive, spesso pessime notizie hanno la prevalenza sulle altre, che ne escono non solo oscurate ma quasi sempre proprio dimenticate. Ci sono però volte in cui il bene è talmente bello ed evidente che risulta impossibile – neppure per i grandi media – non parlarne. E’ il caso di una bimba che, grazie alla professionalità dei medici dell’Ospedale dell’Università di Brno (Repubblica Ceca), è riuscita a nascere a 117 giorni dopo che purtroppo la sua mamma, una donna di 27 anni, è stata colpita da un ictus morendo a livello cerebrale.

Questi, per l’esattezza, i fatti: la donna era al quarto mese di gravidanza, quando è stata ritrovata incosciente in casa ed è stata trasportata in elicottero all’Unità di emergenza di Brno, il 21 aprile 2019. Appena ricoverata, l’anamnesi è risultata drammatica: malformazioni artero-venose con manifestazioni di epilessia. A quel punto, i soccorritori hanno mantenuto la sua attività respiratoria e, dalla Tac, è poi emerso un ictus. Il respiro spontaneo è scomparso nel pomeriggio e un esame neurologico clinico ha confermato la morte cerebrale della donna.

Da quel momento, i medici della clinica di Anestesia, rianimazione e medicina intensiva dell’ospedale universitario di Brno e della Facoltà di Medicina dell’Università di Masaryk insieme ai ginecologi non hanno potuto fare altro che attivarsi per salvare il salvabile, ossia la vita della bambina che la donna portava in grembo. Una sfida comunque assai impegnativa, per affrontare al meglio la quale i dottori hanno prima stabilizzato le funzioni vitali della paziente e poi fatto il necessario per riuscire a far nascere la piccola, con un intervento che ha del miracoloso.

Infatti, se da una parte si contano comunque pochissime (una ventina) nascite del genere finora verificatesi, dall’altra questo pare proprio essere il ricovero più lungo e del maggior peso mai ottenuto per un bebè venuto al mondo queste condizioni, e poi nato di oltre 2 chili. Un fatto eccezionale, che non può non far ripensare alla forza della vita, ossia a quell’ancestrale e insopprimibile istinto di sopravvivenza connaturato a ciascuno di noi sin dall’alba dell’esistenza.

Certo, sarebbe stato ovviamente meglio che la mamma di questa bambina fosse stata ricoverata e salvata in tempo; tuttavia, per come si erano messe le cose, in questa situazione il miglior bene possibile poteva essere solo la nascita di questa bimba, avvenuta nell’ambito di un prodigio che – oltre a ricordare quale sia l’autentica vocazione medica, ossia quella di salvare la vita, partire da quella più fragile e indifesa, qual è quella nascente – esalta quanto si diceva poc’anzi, ossia lo straordinario attaccamento all’esistenza da parte dei nascituri. Un attaccamento che ha del commovente e che, se diventasse oggetto di una più ampia e condivisa riflessione, potrebbe portare al ripensamento dell’aborto legale, che ben lungi dall’essere “solo” l’interruzione di una gravidanza, è anche il rifiuto di una vita a un’esistenza che ad essa è già aggrappata. Con tutto ciò che di traumatico questo comporta per una madre a sua volta bisognosa di essere anzitutto accolta.

A questo proposito, sovviene il ricordo dalla fondatrice del Cav Mangiagalli di Milano, Paola Bonzi, da poco scomparsa e che una volta, intervistata da Stefano Lorenzetto su come facesse a convincere le donne a non abortire, risposte: «Le accolgo ponendo loro la domanda più scontata: ha voglia di raccontarmi che succede? È strano, ma quasi sempre iniziano con la stessa parola: “Niente”. È un “niente” che significa “tutto”. Questo mi fa pensare che la gravidanza non trovi posto nella loro mente. Tocca a me dare carne a quel “niente”. Non parlo mai di religione. La vita non ha aggettivi, non è un fatto confessionale. La vita è vita». Vero. E spesso è più forte di quanto si possa immaginare.

 

di Giuliano Guzzo

 

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