25/11/2013

Premila Vaghela: morta per un figlio non suo

I nostri media, quelli che plasmano l’opinione pubblica, continuano a celebrare “genitori” come Ricky Martin o Elton John, che hanno affittato uteri per avere figli, e tacciono in merito alle donne sfruttate fino alla morte da questo ignobile traffico

Non tutte le donne sfruttate fino alla morte – contrariamente a quel che si potrebbe pensare, oggi che si fa un gran parlare di femminicidio e violenze – fanno notizia.
Il nome di Premila Vaghela, ad esempio, ai più non dice e continua a non dire nulla. Eppure è un nome importante perché è un nome simbolo di uno sfruttamento criminale ma, stranamente, non sempre denunciato e percepito come tale dall’opinione pubblica. Premila, infatti, rientrava fra le centinaia, anzi migliaia di donne così povere da arrivare, pur di sopravvivere e mantenersi, a prostituire il proprio grembo vendendo il proprio figlio in cambio di danari fra l’altro insufficienti a cambiar loro la vita.

Trentenne, indiana, la donna faceva riferimento al Pulse Women’s Hospital, struttura privata presentata come sicura ed efficiente e che segue le madri surrogate ad Ahmedabad, nel Gujarat, stato dell’India occidentale. Da otto mesi portava in grembo un bimbo “commissionato” da una coppia americana quando, dopo aver accusato dei forti dolori, è stata immediatamente ricoverata nella locale unità di terapia intensiva prenatale. I tempi e la qualità del soccorso non sono stati dei migliori dato che, purtroppo, i medici non hanno saputo fare nulla contro il grave collasso cardiaco che la attanagliava, mentre il figlio, di appena 1,740 kg, è stato fatto nascere con parto cesareo e messo subito in incubazione. Diversamente da quanto sarebbe accaduto negli Stati Uniti o in Europa, si sono fatti in quattro per salvare il bambino, perché chissà quante migliaia di dollari valeva. Invece la vita della madre, che tutte le femministe del mondo proclamano essere una priorità, la salute della donna, di cui tutti gli abortisti del mondo urlano indignati l’intangibilità, qui non contano nulla. Ci hanno inculcato da più parti che la vita e la salute della madre valgono più del bambino (che non è “persona”, un grumo di cellule, ecc.) e invece la salute e la vita di Premila? Non è una donna anche lei? Solo dopo il parto indotto l’hanno portata in un ospedale adatto alla sua necessità, ed è stato troppo tardi: le autorità hanno avuto buon gioco nel sottolineare la presunta accidentalità del decesso.

Era il maggio 2012. Oggi, a distanza di oltre un anno, e soprattutto grazie alla rete, dove sono stati tradotti e divulgati alcuni articoli di stampa indiana sull’accaduto, la storia di Premila Vaghela inizia a essere conosciuta, anche se molto rimane da fare nella divulgazione e nel racconto della sua vicenda e di altre molto simili. Tantissime, infatti, sono le donne come Premila che subiscono uno sfruttamento che ha fatto dell’India l’Eldorado mondiale della maternità surrogata. Sfruttamento che non vi sarebbe – certamente non nelle proporzioni attuali, almeno – se coppie provenienti da altri Paesi non ricorressero in massa all’utero in affitto e se questo fosse adeguatamente denunciato. Certo, in moltissimi paesi la pratica è tuttora, fortunatamente, illegale. Ma finora un’operazione di denuncia decisa e sistematica non è ancora stata attuata ed è il caso di iniziare.

La memoria di Premila Vaghela, il dolore dei suoi familiari e il senso di giustizia che alberga in tutti coloro che condividono l’importanza della maternità come esperienza non commerciabile, e l’idea che il figlio sia un dono e non un diritto, non possono tollerare ulteriore silenzio. Basta con l’indifferenza rispetto a un dramma disumano e crescente, che però, a differenza di altri, è possibile fermare. Smettere di celebrare i “genitori” di figli commissionati a madri surrogate come Ricky Martin o Elton John, raccontando storie come quella di Premila, potrebbe essere un buon inizio.

di Giuliano Guzzo

Festini

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