07/02/2021 di Manuela Antonacci

Perché la campagna “Io sono le donne” non piace nemmeno alle femministe ed è ipocrita

Sta facendo discutere, non poco la campagna del marchio Chitè Milano, contro la violenza di genere. L’iniziativa del brand che produce boxer unisex, lanciata in esclusiva per san Valentino 2021 vorrebbe, almeno nelle intenzioni di chi l’ha ideata, riportare al centro, il tema della violenza contro le donne. Argomento che, secondo Chiara Marconi, co-funder e Ceo di Chitè, è stato piuttosto accantonato, a causa dell’emergenza sanitaria che, ormai, è l’argomento principe di cui si occupano i media. Eppure, come sottolinea Marconi, i sondaggi dicono che, nel 2020, le richieste d’aiuto da parte delle vittime di violenza, sono aumentate del 71,7% solo tra marzo ad ottobre.

Tuttavia l’iniziativa non è piaciuta affatto alle femministe radicali di Radfem Italia: nei manifesti, appesi a Milano, campeggiano, infatti, diversi primi piani di volti maschili, con una scritta piuttosto ambigua “Io sono le donne” che, in teoria, vorrebbe manifestare la solidarietà del mondo maschile verso le donne vittime di violenza ma che, come sostengono le femministe di Radfem, non fa che trasmettere semplicemente un messaggio ambiguo in merito all’identità di genere, come se ci si volesse appropriare, dell’essere donne, senza in realtà esserlo e, dunque, indebitamente.

Piuttosto, secondo le femministe, il messaggio di fondo, di questa campagna pubblicitaria, sarebbe un altro, come sottolineano sulla pagina facebook di Radfem “E’ il loro sogno invidioso di sempre, da Aristotele in avanti. Prendere il posto delle donne. Saper dare la vita al posto loro. Renderle l’abietto. Rinchiuderle. Nasconderle. Velarle. Cancellarle. Sostituirle. Loro sono le donne. Noi, al massimo, “mestruatori” o “gente con la cervice”.

Diranno, potrei giurarlo, che è una campagna “solidale”. Che stiamo prendendo un enorme granchio! Che loro stanno “dalla parte” delle donne. Che quello che viene fatto alle donne viene fatto anche a loro. Ma il medium è il messaggio. E questa immagine è molto violenta per NOI DONNE. Ci arriva come un pugno nello stomaco.”

Ancora più urticante, per le femministe, è il messaggio ambiguo rispecchiato dal medium stesso che, come sottolineano, alluderebbe ad una concezione fluida della sessualità che nasconde la grande illusione e il grande svantaggio, come hanno sottolineato in più e diverse occasioni, di permettere che la donna in tutte le sue peculiarità biologiche e non, possa essere sostituita, senza colpo ferire, tranquillamente dal maschio. E’ questo il grande inganno del gender che le femministe di Radfem hanno più volte smascherato: che in nome di una non ben definita auto percezione legata al genere e all’identità sessuale, la donna nata biologicamente tale e, dunque realmente tale, possa essere spazzata via o al massimo essere considerata una delle tante “varianti” delle identità di genere e per questo (come sta già accadendo in Inghilterra e in altri paesi europei) non possa nemmeno essere chiamata col sostantivo “donna” perché considerato discriminante ad esempio per i transgender.

Per questo come affermano le femministe “Questa immagine usa consapevolmente la lingua mainstream dell’identità di genere, dell’ideologia queer, del genderfluid, del no-binary, dell’essere donne per scelta e non per nascita […], dell’inner feeling, dell’autodeterminazione e autocertificazione. La comunicazione della moda ammicca molto a questa roba, al codice transumano che oggi ci impedisce di nominarci come donne e che ci sanziona come transfobiche e violente quando lo facciamo. Che fa quindi del semplice nominarsi donne un vero e proprio atto politico.

No, voi non siete le donne. Voi vorreste esserlo, da sempre. Ma le donne siamo NOI. E noi non siamo uomini. Non possiamo essere costrette a essere scimmie di uomini per vivere e agire liberamente nel mondo”.

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