23/09/2019

Parla a Pro Vita Catherine Glenn Foster: «Dal mio aborto alla guida dei pro life»

L’America è la terra dove tutto o quasi diventa possibile. Anche che una ragazza che ha abortito, assuma in seguito la guida della più antico movimento per la difesa della vita nascente. La storia personale di Catherine Glenn Foster è piuttosto nota nel mondo pro life statunitense e lo sta diventando anche in Europa. Dopo la sua traumatica esperienza, la Foster ha radicalmente cambiato vita, decidendo di indirizzare tutti gli sforzi dei suoi studi giuridici al diritto alla vita.

Come avvocato ha seguito centinaia di cause nazionali e internazionali su temi che vanno dalla salute materna al suicidio assistito. Nel 2017, è diventata presidente e CEO dell’Americans United for Life e, lo stesso anno, ha seguito da vicino il caso di Charlie Gard, andando a trovare il bimbo inglese e i suoi genitori a Londra, poco prima che gli fosse praticata l’eutanasia senza il consenso dei familiari.

È in particolare ai risvolti giuridici del fine vita che la Foster ha dedicato il suo intervento alla tavola rotonda Eutanasia e suicidio assistito: una sfida globale, promossa da Mater Care International, in collaborazione con Pro Vita & Famiglia e Euthanasia Prevention Coalition, tenutasi venerdì 20 settembre presso l’Istituto Maria SS. Bambina. Per l’occasione, Pro Vita & Famiglia le ha rivolto alcune domande.

 

Avvocato Foster, può parlarci di Americans United for Life? Quali sono i suoi scopi e di cosa si occupa?

«Siamo la prima organizzazione pro life americana, la fondazione risale al 1971, due anni prima della sentenza Roe vs Wade, che legalizzò l’aborto in tutto il paese. Lavoriamo a stretto contatto con i parlamenti degli stati americani, con il Congresso, con le corti di giustizia, con il mondo della cultura per cambiare le leggi, per creare un network per la vita dal concepimento alla morte naturale, nel nostro paese e in tutto il mondo. Ci opponiamo all’aborto, all’eutanasia, al suicidio assistito e affrontiamo tutte le tematiche pro life, a trecentosessanta gradi».

Lei ha avuto un’esperienza di aborto da giovane: cosa l’ha portata a intraprendere in seguito un cammino completamente diverso?

«Ho intrapreso questa battaglia e sono entrata in questo movimento, proprio perché all’età di 19 anni, ebbi io stessa un aborto. Prima di allora, non avevo una posizione, non avevo mai riflettuto sull’aborto o su altre tematiche della vita. Quando, però, mi ritrovai inaspettatamente incinta, non sapevo come muovermi. Ignoravo che esistesse un movimento per la vita, non sapevo che vi fossero risorse per questa causa. L’unico luogo dove potei ottenere informazioni fu una struttura sanitaria per l’aborto. Vi andai e la mia esperienza lì fu terrificante: nessuna informazione, nessun consenso informato, in definitiva nessuna scelta. Praticamente, fui costretta ad abortire. Per venire fuori da quell’incubo, dovetti affrontare un processo di guarigione: all’inizio mi sentivo debole fisicamente, emotivamente, spiritualmente, quasi malata. Arrivò, però, il momento in cui ho sentito questa chiamata a studiare legge per difendere la vita. Nel corso dei miei studi, conobbi American United for Life ed ebbi come un’illuminazione: questo è il movimento in cui dovrei lavorare, di cui dovrei essere fiera, in cui potrei realizzarmi come avvocato nella difesa dei più vulnerabili, ovvero i bambini nel grembo materno, le persone a rischio eutanasia o suicidio assistito. Questo è quello che avrei fatto, in tutti i sensi».

Com’è lo scenario negli Stati Uniti riguardo alla legalizzazione del suicidio assistito?

«Negli ultimi anni, alcuni stati americani (California, Colorado, Distretto di Columbia, Hawaii, Oregon, Vermont, Washington, ndr) lo hanno legalizzato. È quindi più pericoloso essere cittadini americani oggi, dal momento in cui sempre più gente è a rischio. Dall’altro lato, vediamo come altrettanti stati stanno respingendo questa pratica, mettendo il bando al suicidio assistito, anche dopo che era stato approvato in parlamento. Centinaia di progetti di legge sono stati respinti in numerosi stati. Al tempo stesso, i tribunali e le corti sono consapevoli che non è compito loro depenalizzare il suicidio assistito e che qualunque legalizzazione deve passare per la volontà degli elettori. La stessa Corte Suprema ha più volte sentenziato che il suicidio assistito è un rischio, che può comportare, abusi, negligenze e corruzione, che le persone hanno bisogno di protezione».

 

di Luca Marcolivio

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