01/07/2022 di Giuliano Guzzo

Ora la “carriera alias” sbarca anche tra gli infermieri

Non bastavano i tanti corsi in salsa gender cui, ormai da tempo, viene sottoposto il personale medico, paramedico e sanitario in senso lato. No, bisognava andare ancora oltre. Per questo, grazie all’attivismo dei sindacati su tale versante – culminato nella messa a punto e, quindi, nella sottoscrizione di un nuovo accordo - il nuovo contratto nazionale degli infermieri introduce la «carriera alias». Lo ha riferito nei giorni scorsi il quotidiano La Verità, citando alla lettera il citato nuovo accordo che, come usa dire, parla chiaro, rispetto a tale nuova previsione.

Una previsione che si sostanzia nel fatto che, d’ora in poi, il dipendente che non si riconosce nel suo sesso biologico ma non ha ancora effettuato la transizione può presentarsi uomo o donna in base a come si sente. Esattamente come avviene o avverrà negli istituti scolastici dove questa discutibilissima novità – quella della «carriera alias» - è già prevista, e gli studenti che “si sentono” addosso un’identità diversa da quella percepita potranno vedere il loro nome inserito nel registro scolastico e in tutti i documenti legati alla didattica.

Inutile dire che le gravi conseguenze che la «carriera alias» può produrre sull’equilibrato sviluppo dei più giovani sono difficilmente eguagliabili. Tuttavia, non è che questa novità della «carriera alias» nel mondo infermieristico possa considerarsi in qualche modo neutra; al contrario, si tratta di qualcosa che produrrà purtroppo delle conseguenze. In primo luogo perché costituisce, di fatto, l’introduzione pratica di quella che, a livello legislativo, costituisce una previsione non ancora legge, vale a dire il ddl Zan.

Ricordiamo infatti che è la lettera d) del primo articolo della legge approvata alla Camera, poi naufragata lo scorso ottobre in Senato e infine di nuovo presentata, identica, a Palazzo Madama, a definire l’«identità di genere» come «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Ora, che cos’è la «carriera alias» se non la trascrizione amministrativa e burocratica dell’«identità di genere» del ddl Zan, anch’essa basata su una nuova percezione di sé «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione»?

Si tratta evidentemente della stessa cosa e già questo appare problematico. In secondo luogo, la novità introdotta nel mondo infermieristico è grave perché – oltre a veicolare l’antropologia gender e i contenuti del ddl Zan, criticato da fior di giuristi – destabilizza tutto l’ambito professionale. Prova ne siano le parole, risalenti ad un paio di anni fa, di Kate Grimes ex trust chief executive del Nhs, il sistema sanitario inglese. La donna – difficile da tacciare di omofobia, in quanto lesbica – ebbe a denunciare come l’attivismo transgender sul sistema sanitario stesse «minacciando la nostra capacità di proteggere i pazienti. Soffoca la libertà di parola e crea una cultura della paura tra alcuni membri del personale».

Sono parole che è difficile non considerare molto attuali e applicabili anche alla «carriera alias» introdotta tra gli infermieri italiani: se domani una infermiera collega, poniamo, di tale Giovanni, non se la sentisse di chiamarla Giovanna a fronte del fatto che il collega maschio si presenta tale e quale è sempre stato? Che le accadrà? Subirà un provvedimento disciplinare? Verrà isolata, marginalizzata, magari pure licenziata? Ovviamente, i fautori della «carriera alias» si guardano bene dal considerare simili situazioni che pure potrebbero verificarsi, come provano le considerazioni di Kate Grimes come quelle di chiunque rifletta sugli effetti di riforme a prima vista incoraggianti ma, di fatto, dense di implicazioni. E di implicazioni assai gravi, per giunta.

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