Non ha dubbi monsignor Renzo Pegoraro, medico e sacerdote, da poco nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, nominato da papa Leone XIV lo scorso 27 maggio: il suicidio assistito è sempre una sconfitta per tutti. Lo ha affermato nel corso di una lunga intervista a Repubblica, pubblicata lo scorso 6 luglio, chiamato in causa proprio mentre la politica italiana è in procinto di discutere in Parlamento una legge che vorrebbe recepire le sentenze degli ultimi anni della Corte Costituzionale, ma che per il mondo pro life è assolutamente irricevibile e da bocciare sul nascere (LEGGI QUI perché). Proprio Pegoraro, nell’intervista, ha ricordato anche che ci sono già delle leggi che già fornirebbero molte risposte se fossero applicate meglio, ovvero quelle sulle cure palliative e sul consenso informato del paziente.
Suicidio assistito e eutanasia: una sconfitta
Sul suicidio assistito – e sull’eutanasia, anche se, precisa monsignor Pegoraro, sono due cose diverse - «rimane sempre il no» poiché «rappresenta in sé sempre una sconfitta per il malato, per la famiglia, per la medicina stessa, e per la società. Non essere in grado oggi – spiega il presidente della Pontificia Accademia per la Vita - di porre in essere una cura e un’assistenza buona ed efficace, per cui non si veda altra soluzione da parte del paziente che suicidarsi, suscita molti interrogativi e perplessità. Si possono offrire cure palliative che permettano a una persona di essere bene assistita, non abbia dolore e possa trovare un accompagnamento, evitando così la sofferenza e la solitudine». La posizione della Chiesa cattolica è dunque chiara ed è sempre la stessa, ovvero quella di insistere «su come tutelare la vita di ognuno, come accompagnare quando purtroppo la morte è inevitabile ma viene, con l’aiuto di chi assiste, accettata e affrontata». Anche se in certi casi c’è l’insondabile mistero di un dolore e di una sofferenza che non si possono forse neanche lontanamente immaginare, è comunque «una sconfitta – ribadisce – pensare che l’unica soluzione sia suicidarsi e chiedere aiuto per commettere il suicidio».
Il sacerdote, che è anche un bioeticista, non chiude le porte a forme di dialogo e di mediazioni «per comprendere con chiarezza – sottolinea - quali forme di tutela garantire alle persone malate, in particolare quelle più fragili fisicamente e psicologicamente più vulnerabili», ma ci tiene a precisare che il tutto deve sempre andare nell’ottica di «offrire quelle buone cure palliative che consentono l’accompagnamento nella fase conclusiva della vita».
Un dialogo per tutelare la vita
Per Pegoraro, infatti, un dialogo schietto, sincero e improntato alla tutela della vita deve coinvolgere «anzitutto i medici impegnati nelle cure palliative, che hanno maggiore esperienza di cura, presa in carico e accompagnamento nella fase terminale della vita. Poi è opportuno il dialogo con le associazioni, il volontariato e tutti coloro che esprimono una presenza della società civile in queste fasi». Secondo il monsignore, inoltre, «la Chiesa si impegna a promuovere questo dialogo e questo confronto, meno ideologizzato e più attento ai reali vissuti delle persone, che nella stragrande maggioranza cercano sempre di essere curate, anche quando la malattia evolve in modo negativo, ma non vogliono essere abbandonate né vogliono l’accanimento terapeutico». Il punto centrale, dunque, è ricordare che «anche chi sta per morire è una persona che va salvaguardata nella sua dignità, accompagnata e non indotta o favorita ad autoeliminarsi. Non è il suicidio – ribadisce senza mezzi termini Pegoraro - la risposta ai problemi quando oggi abbiamo reali ed efficaci alternative che curano la vita anche di chi muore, la vita anche per chi sta per concluderla».
Il ruolo del sistema sanitario
In questi giorni si è parlato tanto del Sistema Sanitario Nazionale e del suo ruolo, soprattutto dopo che è trapelata la bozza di testo unico per la legge sul suicidio medicalmente assistito che sta per sbarcare in Aula al Senato per la discussione parlamentare. Secondo quella bozza, infatti, il SSN non avrebbe alcun ruolo attivo nel somministrare la morte ad una persona che lo richiede e che ha i requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale. Monsignor Renzo Pegoraro nella sua intervista a Repubblica sembra voler rispondere a questo tema quando afferma che «è importante» che il sistema sanitario «dia il messaggio che sempre si prenderà cura e offrirà assistenza ai bisogni della persona, e anche che stabilisca dei limiti su fin dove arrivare, fin dove spingersi, perché c’è anche il mistero del cuore dell’uomo, come affronta certe situazioni quando è malato» specifica il monsignore.
Per Pegoraro, infatti – il linea con le posizioni della Chiesa – è comunque ammissibile voler «sospendere tutti i trattamenti se il paziente lo chiede», ma questo non significa passare all’eutanasia né a procurare, indurre o facilitare la morte di una persona. Al contrario, significa «continuare ad assisterlo anche eventualmente con la sedazione palliativa profonda, che può essere accettata dalla Chiesa e regolamentata dalla legge, e che è competenza dei medici gestirla in maniera personalizzata. Significa – precisa Pegoraro - accettare la morte quasi che un malato possa dire, in certi casi, “lasciatemi andare”, come disse anche san Giovanni Paolo II, e allora viene assistito ed eventualmente aiutato affinché non abbia nessun dolore e nessuna sofferenza».
Le proposte regionali
Un’altra questione molto discussa in questi mesi è stata quella delle varie proposte regionali proprio sul tema del fine vita, spesso avanzate dai Radicali e in larga parte bocciate dai consigli regionali, ad eccezione della decisione della Toscana, finora la prima e unica Regione ad aver approvato un disegno di legge in materia. Sull’argomento Pegoraro si dice «molto perplesso e tendenzialmente contrario alla regionalizzazione della materia, essendo in gioco valori fondamentali della nostra Costituzione e del nostro assetto nazionale. La tutela della vita umana, le cure necessarie, l’accompagnamento – specifica - credo debbano avere garanzie nazionali più che regolamentazioni regionali che creerebbero disparità di tutela di un valore fondamentale come la vita umana, anche quando la malattia sta conducendo alla fine».