12/11/2019

Marko, 24 anni e un ictus. Sta meglio ma vuole l’eutanasia

Si può voler morire ad appena 20 anni, quando si ha letteralmente ancora tutta la vita davanti? La risposta non può che essere negativa. Eppure ci sono storie drammatiche, che sembrano andare nella direzione opposta. Come quella di Marko, un giovane di 24 anni che desidera proprio questo: morire. Una richiesta, la sua, motivata non da sofferenze fisiche insopportabili bensì da difficoltà legate alle sue condizioni di salute.

Infatti, quando aveva 20 anni ha avuto un'emorragia cerebrale. Un’esperienza drammatica alla quale è sopravvissuto non senza conseguenze: ha il lato sinistro del corpo paralizzato, inoltre soffre di tinnito ed è sordo. «L’unica cosa che posso sentire tutto il giorno», spiega il giovane, «è solo un lancinante fischio. Dopo l'ictus, poi, non dormo praticamente più e sono irritabile con tutti». Per questo, nonostante i progressi che lui stesso riconosce («è vero che rispetto a 4 anni fa sto meglio»), ora si è rivolto alla svizzera Exit, realtà, come noto, attiva nel fornire servizi di suicidio assistito.

Ebbene, curiosamente persino i dirigenti di Exit, abituati a collaborare con propositi mortiferi, sono rimasti sorpresi dalla richiesta di un aspirante suicida così giovane di età. «È capitato pochissime volte di assistere nel suicidio persone che avevano meno di 40 anni», ha infatti spiegato Jürg Wiler, il vicepresidente di Exit, il quale ha comunque poi aggiunto: «In ogni caso, non neghiamo a nessuno un incontro di consulenza».

Lo stupore di Exit non è isolato. Pare infatti che nessuno dei conoscenti di Marko voglia assecondare la sua voglia di farla finita. Un isolamento che però non sta scoraggiando il giovane: «A me non interessa se sono d'accordo con me o no, io comunque non ho paura di morire. Però mi preoccupo di chi mi lascerò alle spalle». Ora, quale insegnamento offre questa vicenda? Nell’auspicio che naturalmente il giovane ventiquattrenne desista dai suoi ostinati propositi di morte, questa storia si inserisce anzitutto in una tendenza. Non si tratta infatti di un episodio isolato.

Risale infatti a poche settimane fa il caso di Kelly, una giovane belga di 23 anni fisicamente sana, carina e anche fidanzata, ma intenzionata a farla finita per un semplice motivo di disgusto verso sé sessa. Più precisamente, il suo problema è che non si piace: «Quando mi guardo allo specchio, vedo un mostro. Davvero, non mi piace ciò che vedo». Una situazione per descrivere la quale il Daily Mail ha parlato di «crippling shyness», «paralizzante timidezza». Di tenore analogo è stato un caso che ha occupato le cronache di fine maggio quello di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che, pur sana,ha ottenuto il permesso di lasciarsi morire perché segnata da tre stupri.

Tutto questo per dire che la richiesta del giovane di Marko,per quanto incomprensibile, si colloca davvero in un fenomeno tendenziale. Un secondo insegnamento che la sua vicenda impartisce a tutti noi riguarda gli effetti culturali che sta determinando il presunto «diritto di morire». Se infatti i promotori dell’autodeterminazione assoluta hanno sempre spiegato che il «diritto di morire» nulla avrebbe tolto ai desiderosi di vivere, non la teoria bensì l’esperienza sta dimostrano il contrario, e cioè gli effetti culturalmente mortiferi di un certo modo di fraintendere la vita, immaginando che essa sia degna di essere vissuta solo se in condizioni di piena salute e benessere.

Peccato che se si inizia a ragionare in questo modo, come le esperienze di Marko – e prima ancora quelle di Kelly e Noa – insegnano, le ragioni per morire finiscono non solo per affiancare ma addirittura per eclissare quelle per vivere.

 

di Giuliano Guzzo

 

 

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