09/08/2018

L’università della California fornirà aborto in pillole?

Lila Rose è una giovane donna di trent’anni, attivista pro life, che porta avanti la battaglia contro l’aborto sin dalla prima adolescenza. A 15 anni ha fondato il sito Live Action e giunta all’università si è subito spesa per la causa della vita. Proprio qualche anno fa, quando era una matricola all’Università della California, a Los Angeles (UCLA), realizzò che non aveva mai visto nessuna studentessa incinta frequentare le lezioni, e pensò che la cosa fosse collegata a una politica di mancato sostegno alla gravidanza, non solo in generale – da parte dello Stato, ma anche in particolare – da parte dell’ordinamento universitario. Così decise di verificare personalmente il tipo di supporto che l’università avrebbe offerto a una studentessa incinta e bisognosa. Dopo aver finto la propria gravidanza si mise in contatto con la capo-infermiera che, alla richiesta di aiuto, rispose che l’UCLA «non supporta le donne in gravidanza» e le suggerì un aborto.

Oggi, dopo 10 anni, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente, seguendo la china delle più recenti innovazioni legislative in tema di aborto farmacologico: a inizio anno il Senato della California ha approvato un provvedimento che, se ratificato dall’Assemblea, renderebbe obbligatorio per i centri sanitari delle università pubbliche il rilascio della pillola abortiva nei campus. I sostenitori del progetto affermano che tra le 10 e le 17 donne cercano di abortire ogni mese nei vari campus universitari della California. La soluzione è sempre la stessa: invece di offrire realmente a queste donne la fantomatica possibilità di scelta, la California (come il resto del mondo, più o meno) non fa altro che spingere le studentesse in una direzione, obbligandole a scegliere tra la loro istruzione e i loro figli (per non parlare dei rischi per la salute che ormai ripetiamo da tempo immemorabile).

Si fa tanto parlare di pari opportunità e non si vede che questa politica univoca è la perfetta negazione della parità? La donna è madre per vocazione naturale, come l’uomo è padre: ma, piaccia o no alle femministe, i due ruoli sono diversi e non intercambiabili. Se, dunque, la natura stessa chiede alla donna di portare il figlio in grembo per 9 mesi, la società dovrebbe impegnarsi per agevolare e sostenere questa vocazione. Allora sì che vedremmo realizzata le pari opportunità: quando a una giovane donna sarà permesso di essere madre e allo stesso tempo di coltivare la propria crescita e formazione. Oggi, per lasciarglielo fare, le si impone di essere come un uomo.

Redazione

Fonte:
LiveAction

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