05/03/2024 di Alessia Battini

Le donne alzano la voce: stop atleti maschi trans nelle competizioni femminili

Non è niente di nuovo quello che è successo al Rochester Insitute of Technology, un’università privata dello Stato di New York, negli Usa. Qui, un maschio biologico che si identificava come donna ha gareggiato nelle competizioni femminili di corsa su pista nei 200 metri, 300 metri e 400 metri, stabilendo inevitabilmente un nuovo record all’interno della scuola.

La Liberty League Conference, una società sportiva che raccoglie gli atleti di varie università statunitensi, ha riconosciuto queste vittorie e l’ha invitato a partecipare ai campionati tenutisi il 23 e 24 febbraio scorsi. Solo pochi giorni prima però, l’Independent Council on Women’s Sports, ha fatto sentire la sua voce spedendo una lettera alla Liberty League segnalando i rischi di questa sua posizione. La stessa lettera è stata successivamente spedita al Daily Mail.

I membri dell’ICONS precisano, a più riprese, che sono innumerevoli e incontestabili gli studi scientifici che dichiarano l’esistenza di una differenza nelle prestazioni di atleti maschili e femminili, fin dalla giovanissima età. Questa differenza è riconosciuta e spiegata anche dalla Rule C3.5 del Regolamento sulla partecipazione degli atleti transgender alle competizioni sportive redatto dal World Athletics, l’istituzione di riferimento per gli atleti di atletica leggera. Infatti, proprio nella seconda parte di questa norma viene spiegato che la sostanziale differenza tra i sessi nelle performance sportive, che emerge dalla pubertà in avanti, impone di mantenere categorie di competizione separate per atleti maschi e atlete femmine, poiché «i vantaggi fisici degli atleti sono dovuti alla produzione di livelli molto più alti di testosterone rispetto a quelli prodotti dalle ovaie delle atlete dall’adolescenza in poi». Dunque, come viene spiegato anche nella lettera, l’atleta dell’RIT non è idoneo a partecipare alle competizioni della Liberty League ai sensi di questo regolamento.

Inoltre, si aggiunge che diverse istituzioni sportive riconosciute a livello internazionale hanno già assunto dei provvedimenti per limitare queste situazioni, che impediscono lo svolgersi di una competizione equa e leale. Vengono citate ad esempio le federazioni internazionali di ciclismo, nuoto, rugby e atletica leggera, che hanno scelto di «smettere di seguire quelle policy che fanno erroneamente affidamento sui livelli di testosterone» per stabilire se un uomo transessuale possa gareggiare in competizioni femminili. Recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato che il vantaggio maschile continua a persistere anche dopo aver tentato di ridurre il testosterone.

Anche diversi legislatori si sono espressi sul tema: la House of Representatives e i governatori di ben 24 stati federali hanno approvato leggi che assicurano l’impossibilità per gli atleti maschi di competere nelle categorie femminili.

Il World Athletics, nel suo regolamento, dichiara che «vuole garantire uguali opportunità a tutti gli atleti per partecipare ed eccellere negli sport, e garantirgli le condizioni per una leale e giusta competizione». Oggi uguali opportunità significa permettere a maschi biologici di rubare trofei, podi e opportunità di carriera alle stesse atlete che si sono allenate per anni, con dedizione e sacrifici, per raggiungere alti traguardi. Sono sempre di più quelle che scelgono di abbandonare lo sport che hanno praticato per una vita intera, frustrate e sconfitte da questo disagio.

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