28/05/2020

L’audizione di Gianfranco Amato sul ddl omotransfobia. Perché è una legge che non serve

Pubblichiamo di seguito l’audizione informale, in video conferenza, alla Camera dei Deputati – nella II Commissione Permanente Giustizia – dell’avvocato Gianfranco Amato, presidente dell’Associazione “Giuristi per la Vita”, nell’ambito dell'esame delle proposte di legge C. 107 Boldrini, C. 569 Zan, C. 868 Scalfarotto, 2171 Perantoni e C. 2255 Bartolozzi, recanti modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere.




Mi limiterò a sollevare due rilievi che ritengo di fondamentale importanza.

 

  1. DEFINIZIONE DI OMOFOBIA

Il primo rilievo riguarda il concetto di “omofobia”. Ancora una volta – mi riferi- sco in particolare alla proposta C. 868 Scalfarotto – assistiamo al tentativo di introdurre un reato nel nostro sistema giuridico senza definirne il presupposto.

Cosa significa omofobia? Si tratta di un neologismo relativamente recente. Questa parola, infatti, è stata coniata nel 1966 dal sociologo nordamericano George Weinberg. Il termine si compone di due vocaboli greci: ὁμός (homos) che significa uguale e ϕοβία (fobia) che vuol dire paura, fobia. Letteralmente omofobia è la paura di ciò che è uguale. L’etimologia, pertanto, non aiuta a comprendere il significato del concetto.

Non esiste una definizione di omofobia a livello legislativo universalmente riconosciuta, e non v’è una definizione medica. L’omofobia non è contemplata come patologia né dal DSM, ovvero il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, né dall’ICD, ossia la classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS).

Nonostante ciò, si pretenderebbe di introdurre un reato sulla base del concetto amorfo e indefinibile di “omofobia”, concetto che nessuna delle quattro proposte di legge in esame definisce.

Vorrei ricordare, però, che introdurre un reato senza definirne il suo presupposto giuridico è tipico dei sistemi totalitari. In uno Stato di diritto vige quello che viene definito principio di legalità, in virtù del quale il cittadino ha diritto di sapere quali sono le conseguenze del suo comportamento – soprattutto se si tratta di conseguenze di carattere penale – prima del processo e non al processo.

Il contrario è tipico delle dittature. In Unione Sovietica, per esempio, vigeva il tristemente noto “delitto di azione controrivoluzionaria”, previsto dall’art. 58 del Codice Penale, che definiva tale reato in questo modo: «Un’azione controrivoluzionaria è qualunque azione diretta a rovesciare, minare o indebolire il potere dei soviet operai e contadini e dei governi operai e contadini dell’U.R.S.S. [...], o a minare o indebolire la sicurezza esterna dell’U.R.S.S. e le fondamentali conquiste economiche, politiche e nazionali della rivoluzione proletaria». Qualunque azione. In realtà, non esisteva una definizione chiara del delitto di azione controrivoluzionaria semplicemente perché esso veniva utilizzato come strumento per schiacciare l’opposizione e la dissidenza contro il regime comunista. Si trattava di un reato di opinione, esattamente come il cosiddetto reato di omofobia.

In assenza di una definizione della legge, sarà il magistrato in un processo penale a determinare l’eventuale natura omofoba di una condotta. Il problema risiede nell’identificazione dei criteri con cui verificare questa natura.

Prendiamo, per esempio, quello che accade in Gran Bretagna. Anche lì la legge non definisce il concetto di omofobia. E allora come procedono? Semplice, il Crown Prosecution Service (CPS), ossia l’organo che rappresenta la pubblica accusa, ha emesso la circolare 448899 CPS – Hate Policy, il cui punto 2.1 stabilisce testualmente quanto segue: «Poiché non esiste una definizione normativa di omofobia, nel perseguire questo reato si procederà nella seguente maniera: si considererà omofobo o tranfobico qualunque azione percepita come tale dalla vittima o da un terzo soggetto».

In Gran Bretagna, pertanto, è la mera percezione della vittima, o di un’altra persona, che definisce se un determinato atto possa essere considerato omofobo, ed è il giudice che è chiamato a decidere. Un cittadino britanno saprà solamente al processo se la sua condotta ha integrato o meno un reato d’odio. A questo punto, sorgono legittimamente alcune domande. Sostenere che l’unica vera famiglia è quella formata da un uomo ed una donna, si può considerare omofobo? Dichiarare pubbli- camente che un bambino ha bisogno di un padre e di una madre e che non può e non deve avere due papà o due mamme, si può considerare omofobo? Affermare pubblicamente che un essere umano nasce da un gamete maschile e da un gamete femminile e non può nascere da due gameti maschili o da due gameti femminili, si può considerare omofobo? Citare pubblicamente il punto 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica che definisce l’omosessualità una «grave depravazione», e ritiene che «gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, sono contrari alla legge naturale, precludono all’atto sessuale il dono della vita, non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale, in nessun caso possono essere approvati», si può considerare omofobo? Dipende. Dipenderà dal contesto e soprattutto dalla percezione della vittima o di un’altra persona, e deciderà il giudice nel corso di un procedimento penale.

Non convince neppure il tentativo della proposta di legge C. 569 Zan, ossia quello di modificare l’art. 604-bis del Codice Penale, aggiungendo ai motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, anche quelli fondati sull’«orientamento sessuale» o sull’«identità di genere».

Ora, a prescindere dall’evidente incongruenza logica che deriva dal fatto di considerare gli omosessuali e i transessuali una razza come i neri, gli ebrei o i rom, sono le conseguenze sanzionatorie ad apparire aberranti.

Oggi, ad esempio, chi sostenesse pubblicamente di essere contrario al matrimonio misto tra razze diverse, o si battesse per introdurre tale divieto per legge, rischierebbe, proprio in virtù del-l’art.604 bis del Codice Penale, le gravi pene previste da quell’articolo, che arrivano fino ad un massimo di sei anni di reclusione.

È facile comprendere cosa accadrebbe, una volta approvata la modifica di quell’articolo, a chi sostenesse pubblicamente che due omosessuali non possono sposarsi o si battesse per mantenere tale divieto per legge. O a chi sostenesse che due omosessuali non possano adottare un minore, e via dicendo. Non parliamo, poi, delle conseguenze per chi osasse citare pubblicamente il menzionato punto 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Seri problemi sorgerebbero anche per quanto riguarda la libertà di educazione dei genitori, i quali non potrebbero, ad esempio, trasmettere ai propri figli un giudizio moralmente negativo dell’omosessualità, invocando la libertà di educarli secondo i principi, i valori e gli ideali in cui credono. È come se oggi una famiglia, che si dichiari razzista, invocasse il diritto di educare i propri figli secondo tale visione morale. Ciò non sarebbe, ovviamente, possibile.

Appaiono quindi sufficientemente evidenti le conseguenze, sul piano della libertà religiosa e della libertà d’educazione, di un’eventuale estensione dell’art. 604 bis del Codice Penale anche all’omosessualità e alla transessualità.

Sul punto, peraltro, getta un’ombra inquietante quanto affermato nella relazione introduttiva della proposta di legge C. 107 Boldrini, laddove si afferma testualmente che tale proposta «intende colpire non soltanto i casi di omofobia e di transfobia ma le condotte di apologia, di istigazione e di associazione finalizzata alla discriminazione, comprese quelle motivate dall’identità sessuale della vittima». Questo significa che l’associazione Giuristi per la Vita, di cui sono presidente, potrebbe essere accusata di “apologia di discriminazione” per il fatto di sostenere, per esempio, che due omosessuali non possono e non devono sposarsi, o che non possono e non devono adottare minori?

 

  1. CONCETTO DI IDENTITÁ DI GENERE

Il secondo rilievo riguarda il concetto di «identità di genere», contenuto in alcune delle proposte di legge all’esame. Tale concetto nasce da quel filone della filosofia post-strutturalista nordamericana, rappresentato da accademici come Judith Butler, secondo cui il genere non dipende dall’aspetto binario che si trova in natura (maschile/femminile), ma dalla volontà soggettiva di un individuo, grazie alla teoria della “performatività”. Proprio la Butler ha coniato il termine “genere performativo”. In base a tale teoria sarebbe la percezione soggettiva manifestata in un com- portamento esteriore a determinare il sesso e il genere di una persona.

Si tratta di una visione filosofica decostruzionista introdotta nel diritto attraverso l’espressione «identità di genere», così definita nel preambolo dei cosiddetti Principi di Yogyakarta (2007): «l’identità di genere si riferisce all’esperienza del genere profondamente sentita, interna ed individuale, che può o non può corrispondere con il sesso assegnato alla nascita, compreso il personale senso corporeo (che può implicare, se liberamente scelte, modificazioni dell’aspetto o delle funzioni del corpo con mezzi medici, chirurgici od altri) ed altre espressioni del genere, compreso l’abbigliamento, l’eloquio ed il linguaggio del corpo».

In Italia esiste un documento intitolato Linee guida per una comunicazione rispettosa delle persone LGBT, redatto dall’ente governativo UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale), appartenente al Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che così definisce l’identità di genere:

«É il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono uomo, io sono donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». Del resto, la stessa proposta di legge C 107 Boldrini all’art.1, lett. a), così definisce l’identità di genere ai fini della legge penale: «la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico».

Questa idea è alla base della cosiddetta ideologia gender, oggetto di non poche critiche che sarà alquanto difficile continuare a sollevare nel caso in cui venissero approvate le proposte di legge in esame.

In questa denegata ipotesi, peraltro, sarebbe interessante capire come dovrebbero essere trattati i numerosi interventi dei Pontefici sul tema, e in particolare quelli di Papa Francesco che ha testualmente definito l’ideologia gender una «bomba atomica», «una confusione mentale per i giovani», una «colonizzazione ideologica», una «guerra mondiale». Ma sarebbe interessante anche vedere come verrebbe valutato il punto 56 dell’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia, il quale così recita:

«Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo. È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini». Occorre anche considerare, infatti, che cosa accadrebbe nelle scuole con i progetti educativi gender equiparati a quelli contro il razzismo.

L’idea che sta alla base dell’ideologia gender è che attraverso una mera autodichiarazione un individuo possa scegliere il proprio sesso, senza alcuna modificazione della sua struttura fisica che possa esternare in maniera evidente il sesso scelto. In definitiva, la percezione soggettiva deve prevalere sulla evidenza oggettiva. Ora, se questa singolare idea può, in astratto, essere presa in considerazione nell’ambito filosofico, come quello del post-strutturalismo e del decostruzionismo, nel concreto ambito giuridico può creare più di un problema.

Il diritto per attuare le funzioni regolatrici che gli sono proprie necessita di situazioni, fatti e dati definitivi, determinati e soprattutto comprovabili.

Ci sono casi in cui la realtà si deve poter verificare e valutare con evidenza obiettiva. Questo vale, per esempio, con il fenomeno delle cosiddette “quote rosa, ovvero quel meccanismo legislativo con cui viene garantito un mimino di partecipazione femminile in determinati ambiti come quello politico o aziendale. Ora, può invocare tale diritto un uomo che si sente donna ma che non intende sottoporsi ad alcun trattamento chirurgico per modificare il suo aspetto fisico esteriore? Un uomo con i propri genitali intatti, con le proprie caratteristiche maschili totalmente integre può pretendere che gli vengano applicate le norme sulle quote rosa, se si sente donna? E coloro che sono tenuti ad interpretare ed applicare la legge, come possono verificare e valutare una percezione soggettiva non comprovabile e indimostrabile? Altro esempio: se nel sistema legale di un Paese le donne vanno in pensione prima degli uomini, perché un uomo che si sente donna non potrebbe invocare il diritto delle donne a ritirarsi dal lavoro prima del raggiungimento dell’età prevista per gli uomini?

Questa pericolosa intromissione nel campo giuridico da parte della speculazione filosofica relativa al concetto gelatinoso e arbitrario di identità di genere rischia di mettere in crisi lo stesso funzionamento del diritto.

La sana dottrina giuridica insegna ancora il principio «leges non sunt multiplicandae sine necessitate», perché l’esperienza ha dimostrato che seminando leggi non sempre si raccoglie giustizia. Certo, però, quello che non si deve assolutamente fare è legiferare per finalità meramente ideologiche. Questo è pericoloso. Cercare di intervenire a livello normativo, come pretendono le quattro proposte di legge in esame, rischia di pregiudicare la tutela di fondamentali libertà costituzionali come quella di opinione, di educazione, di insegnamento, di credo religioso. Mi chiedo se valga davvero la pena introdurre, sulla spinta di lobby ideologizzate, norme che creeranno molti più problemi di quanti pretendano di risolvere.

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