04/05/2022 di Jacopo Coghe

Il mondo moderno ha imbavagliato la Vita

Si può essere contrari all’aborto in Italia? Si può sostenere e manifestare liberamente gli argomenti che si ritengono validi contro la liceità dell’interruzione volontaria di una gravidanza? Quando nel 1978 il 70% degli elettori italiani bocciò il referendum abrogativo sulla Legge 194, il restante 30%, oltre a quella sfida storica, perse definitivamente anche il diritto di continuare a difendere la dignità di persona umana dell’embrione e del feto negli anni a venire? Non sono domande retoriche o astratte. Negli Stati di tradizione occidentale si moltiplicano segnali e fatti che indicano un graduale e costante restringersi degli spazi di tollerabilità politica, sociale e persino giuridica delle posizioni ‘pro vita’, frutto anche di una fortissima pressione proveniente dagli organismi sovranazionali come ONU e UE. Papa Francesco davanti al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede nello scorso gennaio, riferendosi proprio all’attività di tali enti, denunciò «una forma di colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche».

Negli ultimi anni, i centri di influenza politica e mediatica progressista hanno diffuso con insistenza l’idea che una posizione contraria o critica espressa nei confronti dei cosiddetti ‘nuovi diritti civili’ (aborto, procreazione artificiale, matrimonio e adozione omosessuale, utero in affitto, autodefinizione sessuale, eutanasia, etc.) rappresenti, solo in quanto tale, una forma di violazione di tali diritti. Questo significa, ad esempio, dover comprendere nel diritto di abortire anche il diritto a non vedere lo stesso diritto messo in discussione anche solo in termini retorici, e non solo in termini pratici: affermare apertamente la propria contrarietà all’aborto sarebbe equiparato al materiale frapporsi tra una donna che volesse interrompere la gravidanza e la struttura clinica dove la pratica dovrebbe aver luogo. Le opinioni disallineate col sistema di pensiero ritenuto politicamente corretto vengono sempre più spesso fatte rientrare nell’alveo dei cosiddetti ‘discorsi di odio’ (hate speech). In tali discorsi mancano elementi offensivi o violenti secondo le tradizionali fattispecie di reato (come ingiuria o diffamazione) ma si ritiene che comunque essi abbiano in sé la capacità di generare e istigare in terzi stati d’animo che potrebbero comportare la commissione di un qualche reato.

In termini giuridici si parla di ‘arretramento della soglia di offensività’ di un certo comportamento e, di conseguenza, anche della rispettiva soglia di punibilità: poiché certi discorsi potrebbero, forse, indurre qualcuno a commettere reati, si considera il disvalore sociale dell’eventuale reato già pienamente insito in tali discorsi, che quindi sono vietati e puniti per il sol fatto di essere stati espressi. Ricordate il noto film ‘Minority Report’ con Tom Cruise, in cui le forze dell’ordine arrestano i cittadini ancor prima che commettano i reati sulla base di mere ‘predizioni’? Il sistema giudiziario che alcuni auspicano per contrastare i ‘discorsi di odio’ è qualcosa che, con le dovute differenze, non si allontana da quella filosofia. Ecco, dunque, i cosiddetti ‘reati di opinione’. Questo approccio è alla base dell’art. 4 del ddl contro l’omo-lesbo-bi-trans-fobia (cosiddetto ‘Ddl Zan’), impantanato al Senato dall’ottobre 2021, dopo mesi di burrascoso scontro politico. Tale articolo recita: «Sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Dunque, la libertà di espressione su temi come omosessualità, transessualità, ideologia gender o il matrimonio e l’adozione omosessuali è fatta salva solo se non ‘idonea’ a determinare il ‘concreto pericolo’ del compimento di atti ‘discriminatori’ o violenti. Nelle parole messe tra le virgolette è depositata la carica fortemente illiberale della disposizione. Chi giudica una opinione ‘idonea’ o meno a determinare un concreto pericolo futuro? E quando il pericolo che si determina è effettivamente ‘concreto’? Quando un atto è ‘discriminatorio’? Ovviamente, tutto verrebbe rimesso al Tribunale, con la conseguenza che il giudice in questione, che dovrà decidere la causa, avrà enormi margini di discrezionalità per farlo e il cittadino è così lasciato di fronte alla quasi assoluta incertezza.Tramite le campagne di Pro Vita & Famiglia, negli ultimi anni abbiamo sperimentato, per così dire, sulla nostra pelle, gli effetti di questa progressiva colpevolizzazione delle opinioni e della loro espressione e manifestazione. In particolare, Pro Vita & Famiglia organizza annualmente campagne di affissioni pubbliche, a Roma e in altre città italiane, in occasione di ricorrenze come la Giornata Internazionale della Donna dell’8 marzo o l’anniversario dell’approvazione della Legge 194 (22 maggio). Le reazioni a queste campagne non si limitano alla violenta contestazione sui social network o sugli organi di stampa: i nostri manifesti, regolarmente e legittimamente affissi, vengono puntualmente imbrattati, vandalizzati e strappati dalle loro sedi da parte dei collettivi femministi e di estrema sinistra.

Puntualmente. Quest’anno, poi, ci si è spinti molto oltre, dato che quei collettivi hanno assaltato direttamente la nostra sede romana, vandalizzando del tutto l’ingresso con offese, volgarità e minacce. Ma il vero problema è che le campagne di Pro Vita & Famiglia non vengono illegalmente sabotate solo dai collettivi antagonisti, ma anche dalle stesse istituzioni democratiche: anche le ultime affissioni commissionate a Roma in occasione dello scorso 8 marzo sono state infatti considerate illegali dal Comune, che ne ha disposto l’immediata rimozione su tutto il territorio. Vera e propria censura politica. Cosa mostravano i manifesti? L’immagine stilizzata di un feto nel grembo materno accanto allo slogan: ‘Potere alle donne? Facciamole nascere!’, denunciando in maniera specifica la piaga degli aborti selettivi, che nel mondo impedisce ogni anno a milioni di donne concepite di venire alla luce solo perché donne, solo perché un esame di laboratorio ha individuato il sesso femminile del feto. Uno stillicidio di ‘femminicidi prenatali’ che impedisce ab origine qualsiasi uguaglianza di genere a livello sociale tra uomini e donne.

Che cosa ha ritenuto ìillegale’ il Comune in questo messaggio? Non è precisamente chiaro: l’Assessore alle Pari Opportunità della Giunta Gualtieri, Monica Lucarelli, ha contestato la violazione dell’art. 12 del Regolamento comunale sulla Pubblicità, secondo cui «è vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto contenga stereotipi e disparità di genere, veicoli messaggi sessisti, violenti o rappresenti la mercificazione del corpo femminile e il cui contenuto sia lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici». Ecco le stesse criticità dell’art. 4 del Ddl Zan: chi giudica e valuta l’eventuale portata ‘sessista’ o ‘violenta’ di un messaggio pubblicitario? Cosa significa che un messaggio pubblicitario è “lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici”. In questo caso, poi, la situazione è ben più grave: mentre l’eventuale Legge Zan, in quanto norma di natura penale, verrebbe applicata solo da un Tribunale in un equo processo, il ‘giudice’ dell’articolo 12, almeno in prima istanza, è insindacabilmente il Comune di Roma, un ‘giudice politico’ che ha disposto – senza alcun confronto – la rimozione dei manifesti di Pro Vita & Famiglia, arrecandovi un danno d’immagine ed economico ingentissimo. Inoltre, il Comune di Roma ha intimato alla ditta concessionaria degli spazi pubblicitari la rimozione dei manifesti, motivando che il nostro messaggio «risulta offensivo della libertà della donna all’interruzione volontaria di gravidanza».

Così, l’art. 12 in questione obbliga tutti i cittadini a ‘rispettare’ diritti come l’aborto non solo evitando di ostacolare materialmente gli aborti, ma astenendosi dall’esprimere opinioni o concetti contrari a questo diritto: insomma, devi essere d’accordo con la scelta di abortire; se non sei d’accordo non puoi esprimerlo. Altrimenti ‘offendi’ la libertà di abortire. Dunque, il Comune ha il potere di decidere della vita o della morte del diritto di espressione costituzionalmente tutelato sulla base di considerazioni squisitamente politiche: è così evidente che ci auguriamo lo sia anche per i giudici cui abbiamo ricorso impugnando la delibera comunale, perché sia dichiarata illegittima e denunciando il Comune per danni (d’immagine e patrimoniali). In ogni caso, questo episodio conferma che la libertà di esprimere certe opinioni non ‘politicamente corrette’ è soggetta a una sempre più esplicita forma di brutale repressione politica.

Articolo già pubblicato sulla Rivista Fuoco 

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