18/01/2021 di Luca Marcolivio

“I ragazzi vanno sempre ascoltati”. Tranne quando chiedono la didattica in presenza…

Quasi nessun giornale ne ha scritto, pochissimi ne hanno parlato. Eppure, quello che sta avvenendo da alcune settimane è qualcosa di incredibilmente epocale. Che faccia avremmo fatto se, un anno fa, ci avessero detto: “Vedrete, presto i ragazzi scenderanno in piazza per chiedere di andare a scuola”? In un tempo in cui le assurdità sono diventate il pane quotidiano, viene da domandarsi quanto abbia senso pontificare sulla “nuova normalità”. In questi mesi indecifrabili, si danno per scontate tante innovazioni, dallo smart working alla green economy. Non è tanto il “cambiamento d’epoca” sotto i nostri occhi a lasciarci sbalorditi. Indubbiamente, mai come oggi i cambiamenti si susseguono a velocità ben più vorticosa che in passato, al punto che nemmeno i più acuti e lungimiranti dei nostri intellettuali sono in grado di darne un’interpretazione soddisfacente.

La cosa che sconcerta di più, però, è un’altra: di fronte a tali cambiamenti vorticosi, le nostre élite mostrano un inspiegabile rassegnato fatalismo. Il futuro, tendono a dire, sarà di un certo tipo e non possiamo impedirlo. Si dà per scontato, ad esempio, che la tecnologia andrà a risolvere tutti i problemi umani. Per contro, nessuno (o quasi) si domanda la cosa più importante: le innovazioni – a partire da quelle scientifico-tecnologiche – portano sempre e comunque un beneficio all’uomo e alla società?

Fatta questa premessa veniamo al caso specifico della didattica a distanza (DAD). Accolta come la manna dal cielo nelle primissime fasi della pandemia, questa nuova modalità educativa era parsa a molti lo strumento più idoneo per conciliare due principi sacrosanti: il diritto alla salute e il diritto all’istruzione. Perché i nodi venissero al pettine sono bastate poche settimane. E alla fine, i disagi si sono rivelati di gran luna superiori ai benefici. In più occasioni, Pro Vita & Famiglia ha messo in guardia dai facili entusiasmi, evidenziando tutte le criticità del caso. In primo luogo, la DAD comportava un investimento in spese tecnologiche (pc e tablet) che molte famiglie non potevano permettersi. Per la prima volta dopo un secolo e mezzo, il diritto all’istruzione si ritrovava minacciato e andare a scuola tornava ad essere un privilegio. A farne le spese sono stati in particolare gli studenti disabili. Per non parlare dei disagi delle mamme lavoratici, costrette a mettersi in aspettativa dal lavoro (in molti casi perdendolo) o a conciliare in modo quasi acrobatico il proprio smart working con la DAD nei figli tra le stesse quattro mura.

Non solo: l’assenza di un contatto non virtuale tra insegnante e allievi ha reso particolarmente difficoltosa la didattica, riducendo a una fredda procedura burocratica quello che per secoli, prima di ogni altra cosa, ha rappresentato un processo di crescita umana, di confronto del giovane con il mondo adulto e con i propri coetanei. Al danno prettamente didattico, dunque, si è sommato quello psicologico: uno stress incredibile per i genitori, un senso di malinconica alienazione per i ragazzi, ai quali è stato precluso l’accesso al principale luogo di socializzazione ed amicizia. Nella seconda ondata pandemica, poi, è stato altamente sottovalutato uno specifico rischio per gli studenti delle superiori: la dispersione scolastica e, in assenza di lockdown diurno, la possibilità di “marinare” la DAD, bighellonando e prendendo contatto con giri poco raccomandabili.

A livello politico, poi, l’approccio all’intera problematica è ai limiti del grottesco. Non solo l’Italia è stato, lo scorso settembre, l’ultimo paese europeo a riprendere la didattica in presenza ma assistiamo al paradosso di un Ministro dell’Istruzione che vorrebbe venire incontro alle esigenze degli studenti e delle loro famiglie (pur avendole ignorate fin quasi alla scorsa estate) ma che deve fare i conti con il parere contrario delle Regioni e con altri cavilli burocratico-sanitari. E intanto in tutti i mesi di “tregua pandemica” intercorsi tra la prima e la seconda ondata, nemmeno una delle reali emergenze (dallo sfoltimento delle “classi-pollaio alla carenza di trasporti scolastici, fino al sottodimensionamento dei docenti) è stata minimamente affrontata. In compenso, è stato fatto credere per mesi, che la priorità assoluta per le scuole italiane fosse l’acquisizione di due milioni e mezzo di banchi a rotelle… Con il risultato che quasi due milioni di studenti (1.600.000 per ragioni economiche, 300mila in quanto disabili) vedono ora calpestato il loro diritto allo studio.

Ci ritroviamo così davanti ad un assurdo: una società che per decenni è stata edificata “a misura di giovane”, andando sempre incontro a tutti i capricci dei ragazzi, oggi nega loro una richiesta che corrisponde a un diritto-dovere. Ci si riempie continuamente la bocca di frasi fatte del tipo “bisogna ascoltare i giovani”, salvo poi diventare sordi e ciechi dinnanzi alla loro umilissima richiesta di tornare a scuola. Se nel ’68 il motto era “la fantasia al potere”, oggi la sfida è riportare al potere la normalità. I ragazzi sono stufi di promesse che sanno di aria fritta, vogliono concretezza e senso della realtà. Essere normali è diventato rivoluzionario, avverando così la celeberrima “profezia” di G.K. Chesterton: «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate».

 

 

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