02/04/2015

I diritti dell’omosessualità

Diritti degli omosessuali o dell’ omosessualità ?

In precedenti articoli (qui la prima parte, la seconda, e la terza) abbiamo spiegato perché il cosiddetto “matrimonio” omosessuale è impossibile in quanto matrimonio. Esiste una ripugnanza di tipo concettuale, prima ancora che giuridica, sociologica, ecc.

Il “matrimonio” omosessuale però è impossibile anche per altri motivi, e cioè non solo perché non può realizzare la definizione di matrimonio, ma perché non dovrebbe essere riconosciuto dallo Stato neanche come semplice “unione”. Il matrimonio rientra infatti nel genere delle “unioni”. Ora il “matrimonio” omosessuale (sempre tra virgolette perché, appunto, è tutt’altro che un matrimonio) contraddice tanto la specificità del matrimonio in quanto tale (contraddizione “specifica”) quanto la ragione per la quale una unione di persone di qualsiasi tipo dovrebbe essere riconosciuta dallo Stato (contraddizione “generica”).

Questo secondo aspetto è importante tenerlo in mente soprattutto ora che si parla di “unioni civili” per omosessuali (vedi ddl Cirinnà). Un primo argomento contro questo tipo di unioni è, lo si è detto tante volte, che lo Stato non può, non solo formalmente, ma neanche sostanzialmente equiparare altre unioni al matrimonio, visto che il matrimonio ha una funzione sociale specifica e imparagonabile. Da questo punto di vista, predisporre un regime uguale o simile a quello del matrimonio di cui all’art.29 cost. per unioni diverse si risolve in una ingiustizia e in una discriminazione verso il matrimonio: lo Stato non può trattare cose diverse in modo sostanzialmente identico e i diritti “speciali” attribuiti ad un istituto devono avere una ragione nella sua “utilità” o funzione sociale.

Questo argomento tuttavia potrebbe non bastare, specie quando il regime giuridico delle “unioni” differisce in modo più o meno vistoso da quello del matrimonio. C’è una ragione più profonda per la quale lo Stato non può riconoscere nessun tipo di “unione civile omosessuale” (oppure eterosessuale, ma in questo caso le ragioni sono diverse): perché il fondamento di quel riconoscimento e la ragione dell’attribuzione di diritti “speciali” consisterebbe nello stesso rapporto omosessuale, un rapporto moralmente disordinato, psicologicamente problematico e persino fisicamente negativo.

Non si dica che questa ragione è di carattere “confessionale” e che quindi uno Stato “laico” non potrebbe prenderla in considerazione. Non è vero: quella qualificazione del rapporto omosessuale è accessibile anche alla ragione.

Dal punto di vista morale, non essendo nostra intenzione sviluppare qui la questione, ci limitiamo a ricordare che l’unico modo per sfuggire a un relativismo assoluto dei valori morali e a un positivismo giuridico alla Kelsen è di riconoscere un valore (anche) normativo alla natura: è essa che ci indica quali sono i “beni” fondamentali dell’uomo. Il bene non è altro che il “fine”, in ogni ordine, essendo il fine la perfezione verso cui si tende e verso cui tendono le diverse facoltà. Perciò il bene dell’uomo corrisponde alla realizzazione delle finalità delle sue potenze e facoltà. La finalità della dimensione sessuale dell’uomo è chiara e, consistendo essa nella generazione nientedimeno che di una persona, questa finalità non può essere negata o subordinata ad altre, pena un rovesciamento dell’ordine dei valori. Ora è chiaro che il rapporto omosessuale nega la finalità della dimensione sessuale, e questo da un punto di vista razionale-antropologico, prima ancora che religioso. (All’obiezione che l’omosessualità sarebbe naturale perché “si trova” in natura, anche tra gli animali, abbiamo risposto tante volte: ad esempio qui).

Il nesso tra l’immoralità dell’atto omosessuale e l’opposizione al finalismo iscritto nella natura dell’essere umano spiega del resto perché da quell’atto (e ancora di più dalla ripetizione abituale di quell’atto) derivino altri disordini, non solo morali ma anche psicologici e fisici. Ormai molti studi e statistiche ufficiali indicano come nella popolazione omosessuale si riscontrino livelli maggiori di problemi come la depressione, l’ansia, il consumo di alcol e di droghe, tendenze suicidarie, certi tipi di cancro, ecc. Tutto ciò viene confermato anche da fonti LGBT (qui per le lesbiche e qui per i gay).

Che i problemi psicologici e fisici non siano dovuti esclusivamente alla presunta “omofobia sociale” ma a cause intrinseche al rapporto omosessuale è chiaro sia dalla sostanziale invarianza delle statistiche anche in quei paesi con poca o nulla “omofobia sociale”, sia, soprattutto, per il fatto che molte problematiche fisiche non hanno relazione con possibili influenze esterne ma sono dovute alle modalità biologiche degli atti omosessuali. Questo vale in particolare per la trasmissione di malattie come l’AIDS, ma non solo.

Nel caso dell’AIDS, è noto che ogni tipo di comportamento sessuale comporta un rischio diverso di trasmissione della malattia. Secondo i dati forniti dai CDC (Centers for Disease Control and Prevention), non certo bigotti e omofobi, nel rapporto anale il rischio di trasmissione del virus HIV viene moltiplicato quasi per 20, rispetto al normale rapporto vaginale. “Nulla di strano. L’ano è “tappezzato” da una mucosa monostratificata (con un singolo epitelio), è riccamente irrorato, fatto per espellere feci e non per ricevere alcunché. Direi che non c’è bisogno di particolari dettagli per la capire che forma e funzione hanno un loro significato in natura e un utilizzo non conforme a forma e funzione del corpo ... chiaramente rende conto della differenza di rischio [nell’ano infatti più facilmente si provocano micro-traumi che fungono da canali per il virus, NdR] (...) I maschi che hanno rapporti sessuali con altri maschi rendono ragione del 63% di tutti i casi di HIV [pur essendo solo circa il 2-3% della popolazione totale, NdR]: questo fatto ... rappresenta un dato abbastanza preoccupante” (Chiara Atzori, Genere o gender? Una lettura scientifica, dagli atti del convegno “La teoria del gender: per l’uomo o contro l’uomo?”, Verona, 21 settembre 2013). Questi dati sono confermati dai CDC.

In proporzione quindi, gli uomini che hanno rapporti con uomini moltiplicano per quasi 50 volte il rischio di trasmettere l’infezione (nonostante siano costantemente sollecitati a utilizzare preservativi), rispetto agli uomini che hanno rapporti con donne. Statistiche simili valgono per altre malattie sessualmente trasmissibili. Nonostante la diffusione dell’AIDS sia sotto controllo nei paesi occidentali, i gruppi che invece esibiscono tassi della malattia in preoccupante crescita sono proprio quelli della popolazione omosessuale. I rapporti omosessuali costituiscono dunque, sotto quest’aspetto, anche un problema di salute pubblica.

Per tornare alla questione delle unioni civili omosessuali, lo Stato dunque, qualora le riconoscesse, approverebbe e attribuirebbe diritti sulla base di un fenomeno sia individualmente che socialmente negativo, incentivandolo ulteriormente.

Ma c’è di più.

Nello stesso modo in cui i diritti nel matrimonio non sono dell’uomo o della donna presi come individui, ma sono “del matrimonio”, cioè hanno la loro ragione giustificatrice in quell’unione complementare, potenzialmente procreatrice, che sta a fondamento della famiglia; così con l’unione civile omosessuale avremmo diritti non degli omosessuali come “individui”, ma diritti che sgorgherebbero dal rapporto omosessuale in quanto tale: sarebbero precisamente “diritti dell’omosessualità” o del rapporto omosessuale, non tanto diritti degli omosessuali (con ciò intendendo il presupposto del diritto, che sarebbe non la persona dell’omosessuale ma il rapporto).

Il riconoscimento da parte dello Stato di queste situazioni non significherebbe soltanto “passiva” approvazione ma vera e propria promozione sociale dell’omosessualità. E’ ovvio infatti che se il rapporto omosessuale rappresentasse il fondamento di specifici diritti, esso sarebbe favorito in quanto tale dal pubblico potere: essendo il diritto un “vantaggio” di rilievo sociale, esso rende “appetibile” il presupposto che lo fonda. Per questo motivo lo Stato che riconosce l’unione civile tra omosessuali non fa una scelta da Stato “neutrale e laico”, ma da Stato “omosessualista”.

Il riconoscimento di unioni civili omosessuali è in contrasto con la neutralità che lo Stato pretende di avere in campo etico. Lo Stato in quest’ipotesi adotta una posizione etica specificamente omosessualista. In effetti, sull’omosessualità ci sono astrattamente due posizioni opposte: quella, ad esempio, dei cattolici (ma non solo: è la posizione della ragione) secondo la quale il rapporto omosessuale è in sé disordinato, individualmente e socialmente negativo. Quella degli “omosessualisti” che afferma la “positività” del rapporto omosessuale, sia dal punto di vista individuale che dal punto di vista sociale (posizione che è probabilmente minoritaria).

Persino uno Stato relativista e laicista dovrebbe, come minimo e per coerenza, mantenere una equidistanza dalle due posizioni etiche suddette: non può quindi agire sul presupposto che il rapporto omosessuale sia un valore individualmente e socialmente positivo. Ora senza questo presupposto, il riconoscimento delle unioni civili per coppie dello stesso sesso non è intellegibile. Lo Stato laicamente “neutrale” per rimanere coerente con se stesso, non può operare una promozione sociale del rapporto omosessuale (attribuendo diritti di carattere pubblicistico che non derivano dall’autonomia privata) ma lo dovrebbe considerare almeno come fatto socialmente irrilevante. Se lo Stato non si ritiene capace (erroneamente) di riconoscere un’etica oggettiva basata sulla legge naturale, dovrebbe logicamente, non trattandosi di valori pacificamente condivisi, considerare il valore/disvalore dell’omosessualità come questione indecidibile e non attribuire ad essa addirittura una positiva rilevanza sociale.

A nulla serve obiettare che lo Stato discriminerebbe così tra orientamenti sessuali, riconoscendo e promuovendo solo quello eterosessuale: non si tratta di “discriminazione” ma di differenza assolutamente ragionevole e normale. A parte il fatto oggettivo della naturalità, positività e rilevanza sociale del rapporto tra persone di sesso diverso, contrariamente a quello omosessuale, anche dal punto di vista formalmente democratico questa differenza è ragionevole: mentre sia la positività/negatività che la rilevanza sociale dell’omosessualità sono ampiamente discusse, la positività e la rilevanza sociale della eterosessualità sono ampiamente condivise, anche dagli stessi omosessualisti, che non starebbero qui a discutere di unioni civili senza aver sperimentato in prima persona (con la loro stessa esistenza e nascita) l’utilità di una sessualità biologicamente complementare.

Infine, l’approvazione di unioni civili omosessuali dà luogo al tanto discusso fenomeno del pendio scivoloso. Una volta ammesse queste unioni, mancherebbero le ragioni oggettive per non riconoscere i più vari o bizzarri tipi di unione. Limitarsi alle unioni civili per omosessuali risulterebbe anzitutto discriminatorio nei confronti di altri generi di legami tra persone: pensiamo a un forte rapporto di semplice amicizia tra due persone, che siano dello stesso o di diverso sesso. Il legame di amicizia sarebbe meno degno di riconoscimento pubblico per il solo fatto che i due amici non hanno rapporti sessuali anali e simili? Al contrario: al di fuori del matrimonio, questi rapporti sono meno degni (anzi in-degni) dell’amicizia in se stessa. Quanto alle unioni “bizzarre”, una volta ammessa l’unione civile sulla base dell’omosessualità del rapporto, non si capisce perché lo Stato dovrebbe “discriminare” le unioni fondate sul “poliamore”, fatte di tre o anche più persone.

Insomma, altro che progresso in tema di diritti e protezione delle minoranze: le unioni civili (di qualsiasi tipo e caratterizzate da qualunque numero di diritti) per coppie omosessuali sono un bel pasticcio antropologico, giuridico e sociale.

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