04/02/2014

Gli aborti del dr. Brigham

Il ritratto di un uomo laureato in medicina a Harvard, di bella presenza, cordiale, disponibile e assai discusso sulle pagine della rivista progressista per eccellenza, riapre di colpo l’annosa discussione sull’aborto, riesplosa in Spagna e in Europa. Quasi in contemporanea con l’uscita lunedì del nuovo numero del New Yorker, domenica in diverse città europee e a Roma davanti all’ambasciata spagnola, si manifestava contro le modifiche restrittive della legge sull’aborto, in solidarietà con le proteste delle abortiste iberiche. Il New Yorker è noto come depositario del conformismo politico più altisonante (ma errori di stampa o di fatto e scrittura sciatta sono incidenti sconosciuti nelle sue pagine patinate e perfette). L’autore del pezzo, Eyal Press, è figlio di in medico abortista di lungo corso. Era legittimo aspettarsi un sofisticato schieramento di argomenti favorevoli all’interruzione volontaria di gravidanza.

In realtà, le dodici pagine dedicate a Steven Chase Brigham, classe 1956, sono tutt’altro che consolatorie per i paladini di “Abortion On Demand” (aborto-senza-se-e-senza-ma). Era un medico privo di qualsivoglia esperienza in campo ginecologico, votato a suo dire a “aiutare le donne con il massimo rispetto”, che praticava interruzioni in stato di avanzata gravidanza (nel secondo e persino terzo trimestre) in una grande catena di cliniche private di sua proprietà della East Coast – New York, New Jersey, Pensylvania, Virginia, Maryland. E lo faceva senza prendersi la briga di perfezionare la tecnica più semplice e meno rischiosa di aborti fatti nei primi tre mesi di gravidanza. Prima ancora aveva trovato impiego in cliniche altrui, i cui boss evidentemente erano disposti a chiudere un occhio su un medico inesperto, permettendogli di fare tirocinio sul corpo vivo di donne che però (si può esserne certi) non erano state avvisate di essere cavie, e che pagavano il prezzo intero. Il dottor LeRoy Carhart aveva lavorato con George Tiller, con il quale praticava aborti in casi di gestazione avanzata. (“Tragici ma a volte inevitabili”, come singhiozza sulla pagina il figlio dell’abortista. Inevitabili per chi? Perché? Press non approfondisce, non elabora oltre la dichiarazione di “fatalità”) . Carhart dice di essere rimasto agghiacciato quando Brigham gli chiese di insegnargli la tecnica da seguire su donne in “advanced gestation”, mentre senza imbarazzo e con disarmante sincerità ammetteva la sua assoluta mancanza di pratica nel campo. Carhart, ancora stupito: “E’ come pretendere di pilotare un reattore jumbo senzo aver imparato a volare con un aereo da turismo”. E questo è il meno, rispetto a quanto si dirà più avanti. Nelle pubblicità per le sue cliniche substandard prometteva falsamente prezzi bassi e aborti indolore “tutto incluso”, mentre i prezzi erano più alti e tutti i servizi di complemento (pap test, prelievi di sangue, ecografie) o erano mancanti, fatti da autodidatti o mancanti del tutto, o offerti per un costo supplementare. E non erano, secondo testimoni citati dall’autore con nome e cognome, indolori. “Si sentivano gemiti, urla, pianti, richieste d’aiuto, da parte di pazienti post aborto, lasciate a contorcersi sulle barelle. In più i locali erano sporchi e il medico sgarbato. Scene da Hieronymus Bosch, che le pazienti interrogate dicevano di sopportare poiché, nelle parole di una di loro: “Pensavo di meritarmelo”. Operava tranquillamente in locali privi delle più basilari norme igieniche, spesso mettendo in moto il processo abortivo (la dilatazione della cervice, per esempio) in uno stato con leggi più rigide, per poi trasferire le pazienti, senza averle avvisate prima, per completare la procedura in uno stato confinante con regole più accomodanti. Nelle parole inviate per posta elettronica a Jen Boulanger, allora consulente per un’altra clinica abortista a Allentown, in Pennsylvania, vicino a una gestita da Brigham: “Sono stata testimone di un malfunzionamento della suction machine (macchina aspiratrice) in cui sono stata spruzzatta su tutto il corpo e persino negli occhi e nella bocca, con materiale biologico da una procedura del secondo trimestre”.

Boulanger, che resta nel campo come direttrice delle comunicazioni per una catena di “women’s clinics”, dice che dopo aver letto questa e altre testimonianze, “mi sono messa a piangere, ecco quant’era tremenda la situazione”. Tali e tante sono le lamentele, le denunce e i divieti di praticare medicina in più stati contro l’“health professional”, che persino la National Abortion Federation, un’associazione di categoria con soci sotto assedio dei pro-life sin dal passaggio di Roe vs Wade, e in accelerazione dagli anni Ottanta, lo ha radiato. La cacciata acquista un significato di condanna ulteriore se si rammenta che sono vari decenni che l’offerta di “abortionist practicioners” – medici disposti a praticare aborti – è in calo, e infinitamente inferiore alla richiesta, una forbice che si allarga sempre più. “Si può anche legalizzare l’aborto – afferma scoraggiato un portavoce del N.A.F. – ma se non ci sono medici disposti a farli…”.

Sostanzialmente la situazione era già così durante i lunghi anni in cui l’aborto era reato. A prima vista, il trentacinquenne tanto charmant, deciso a dedicarsi all’annosa pratica con entusiasmo e senza dubbi, sembrava un regalo del destino ai medici sotto pressione della N.A.F. La predisposizione del gruppo abortista è di chiudere un occhio su medici poco ortodossi, fino a quando misfatti e spregiudicatezze da malasanità non superano i livelli di guardia. Da sempre insufficiente alla bisogna, è in calo continuo il numero di medici disposti a esporsi ai pericoli del mestiere meno invidiabile del mondo, se si esclude il bottino disponibile ai volenterosi.

E’ indubbio che eseguire aborti è una licenza per stampare denaro. Basti pensare che nel 1972, l’anno prima della decisione della Corte suprema, centinaia di professori di ostetrica firmarono una petizione (Eyal Press, che descrive il fascinoso Brigham come Dorian Gray, scrive “dichiarazione”) che esortava medici sprovvisti di obiezioni morali all’esecuzione di aborti, di sentirsi in dovere di aiutare a smaltire la “immane” valanga di richieste per la procedura una volta legalizzata. “Se solo metà dei 20.000 ostetrici del paese accetta di farli, se ne potrebbero portare a compimento un milione all’anno, con una media di applicazione soltanto di due a settimana a testa”. Press, nello sforzo di renderla meno brutale, chiosa così la perorazione: “Quella generazione di ostetrici aveva visto donne portate in barella nei pronti soccorsi, una dopo l’altra, perché avevano pagato qualcuno senza la formazione adeguata per mettere fine alle gravidanze”. (Bernard Nathanson, l’ex medico abortista divenuto pro-life e morto nel 2011, di cui si parla più avanti, diceva che il numero di decessi dovuti ad aborti clandestini propagandato da Naral, National Association for the Repeal of Abortion Laws, di cui era co-fondatore, cioè tra i cinque e i diecimila annui, era “inflazionato oltremisura… ma faceva comodo a noi”). Poteva aggiungere che probabilmente mai avrebbero immaginato risultati simili dopo la legalizzazione.

Sin dagli anni Novanta i soci del N.A.F. discutono e si scambiano consigli, nelle loro riunioni, sul modo migliore di difendersi dagli attacchi a volte mortali, per esempio installare porte blindate e vetri antiproiettile nei loro studi e ambulatori (anche se almeno un paio di medici sono stati uccisi altrove, uno nella cucina di casa propria e l’altro in chiesa). Il peggio dei disgraziati metodi del dottor Brigham non era nemmeno le menzognera pubblicità che metteva su pagine gialle e giornali locali, in cui prometteva interventi indolore, comprensione e parcelle contenute.  Coccole e sconti, specchietti per le allodole. Punture, prelievi di sangue e altre procedure infermieristiche venivano fatte da personale – impiegate – senza la minima preparazione professionale; le pazienti venivano spesso abbandonate a se stesse in condizioni post operatorie precarie e dolorose, anche per ore. Dopo una delle molteplici, ripetute denunce a carico del medico inesperto, autodidatta e in fine incompetente in tecniche ginecologiche, e i divieti a esercitare la professione, Brigham continuava a gestire cliniche con medici che usavano gli stessi metodi; tra i suoi grossolani errori, o fatti sotto la sua responsabilità, ci sono aborti plurimi proseguiti senza interruzione dopo la perforazione dell’utero della paziente, infezioni talmente trascurate e invasive (ci sono casi in cui saltava le visite post operatorie) da portare a isterectomie d’urgenza. Brigham insiste nell’affermare di aver seguito stage di formazione, ma non è in possesso di uno straccio di certificato che lo dimostri. Il ritratto del New Yorker parla della notevole compostezza di Brigham; disinvolto, spigliato e sicuro di sé persino in situazioni che avrebbero scosso un bisonte.

Nulla sembrava disturbarlo, inquietarlo, mandarlo in crisi, nemmeno quando sono cominciati i guai seri: le prime chiusure di cliniche e la sospensione della licenza medica in più stati. Sembra chiarissimo che il  giovanotto trentenne assai promettente negli anni Novanta, che discettava alla prima riunione del N.A.F. sul desiderio di “trattare le pazienti con rispetto” e che aveva “gli interessi delle donne a cuore”, era semplicemente alla ricerca di un modo sicuro per garantirsi una posizione economica solida. E’ indiscutibile, data l’enormità della domanda rispetto alla pochezza dell’offerta, che fare il medico abortista conviene a chi vuole assicurarsi un conto in banca sostanzioso. Stupisce solo che un harvardiano ambizioso come Brigham non si accontentasse di rimpinguare il conto in banca seguendo normali regole d’igiene, precauzioni e professionalità. Prendere scorciatoie assurde gli avrà senz’altro fatto risparmiare qualche dollaro al momento, ma a quale costo in cause, avvocati, sospensioni, chiusure forzate delle “cliniche” e la necessità di operare attraverso collaboratori? Bisogna scomodare Freud per capire perché preferiva far fesse la legge e le donne, piuttosto che applicare le più semplici e ovvie norme igieniche e del codice penale. Tanto più che quando lui ha iniziato, negli anni Novanta, da tempo i militanti per la vita erano sul piede di guerra; come si sa, più di un esaltato per la vita particolarmente folle ed enragé è anche ricorso alle armi per eliminare medici come Tiller (colpito da colpi di pistola alle braccia nel 1991 a Wichita, nel Kansas, sopravviverà per poi soccombere a un secondo attentato nel 2009, mentre era in chiesa la domenica), come David Gunn e il suo successore John Britton, uccisi nel 1993 e nel 1994 a Pensacola in Florida, e Barnett Slepian, trucidato a Buffalo, New York. Press è lesto a denunciare il movimento per la vita, che secondo lui tenta di demonizzare tutti i medici, anche i tanti a suo dire scrupolosi (vogliamo credere che ci siano) che “incorporano l’aborto nel normale svolgimento delle altre cure offerte come ostetrici ginecologi”; come suo padre Sholom Press, un emigrato israeliano che ora è “l’ultimo ostetrico ginecologo di Buffalo che offre, tra le altre cure per pazienti in uno studio privato, la possibiltà di abortire”. (E’ cinismo immaginare che dev’essere assai occupato, il ginecologo Press?)

Eppure il figlio giornalista lascia chiaramente intendere che tutto il movimento per la vita tracima di fanatici religiosi che si arrogano il diritto biblico di applicare la legge del taglione. Sono pochi, anche se uno è sempre troppo. Chi si prende la briga di informarsi oltre la propaganda sa che tra i pro-life abbondano persone compassionevoli che desiderano solo parlare con la donna che vuole abortire, ascoltarla e aiutarla ad arrivare a una scelta consapevole. Non sono mai abbastanza, però, le persone come Paola Bonzi, che da trent’anni, al Centro per la vita della clinica Mangiagalli di Milano, non solo consiglia e ascolta, ma segue le donne che scelgono la maternità che in primo luogo avevano temuto, sia prima sia dopo la nascita del bambino.

Trovare un punto d’equilibrio tra legalità e moralità, tra il diritto di scegliere e il diritto a non essere uccisi prima di nascere è probabilmente impossibile. “Yo decido” proclamano le spagnole furiose per la nuova proposta di legge che permetterebbe, come in passato, l’aborto solo in casi estremi come stupro, incesto, potenziali danni fisici o psicologici alla madre. E in verità sarebbe francamente sorprendente se entrasse in vigore la legge Gallardon, dal nome del ministro della giustizia del governo Rajoy, visto i tempi che corrono, tra uteri in affitto, genitori e matrimonio omosessuale e via progressando. E’ probabile che le teste più pensanti tra i pro-life preferiscano che la legge sia non troppo restrittiva, per onorare la marcata diversità di opinione, e per la scarsità di assistenza concreta specie alle donne sole e senza sostegno materiale e morale. Però si conoscono medici abortisti che hanno cambiato idea, come Bernard Nathanson, il medico ebreo-ateo che passò – grazie alle allora nuove tecnologie a ultrasuoni, che facevano vedere la realtà in pancia –  dalla prima linea a favore dell’aborto “on demand” al movimento per la vita, e dieci anni dopo ebbe una seconda conversione, questa volta al cattolicesimo. (Sarebbe interessante ritrovare i suoi documentari degli anni Ottanta, “The Silent Scream”, “Il grido silenzioso”, cioè l’aborto vissuto dal nascituro attraverso l’ecografia). E’ molto più difficile reperire medici o anche semplici cittadini che hanno fatto il percorso inverso, da convinti sostenitori per la vita a ferventi abortisti. Ci sarà una ragione. Per molti, appena si passa dalla questione legale a quella morale, il gioco è fatto. Tra la vita e la morte, come si fa ad avere dubbi per che cosa tifare? Continua, però, a essere la questione dirimente per i progressisti bobos, quei bourgeois bohemién sicurissimi della superiorità dei loro “valori”, più cool del Polo nord. E questo nonostante la continua, crescente percentuale di coloro che si identificano come pro-life negli Stati uniti: 51 per cento sulla popolazione in generale, e il 41 per cento tra i soli democratici.

Il trend nell’opinione pubblica contro l’aborto inizia negli anni Novanta con l’arrivo delle tecniche che svelano lo sviluppo precoce dell’embrione e la sua capacità di sentire dolore, quell’embrione che molte femministe continuano a chiamare “una massa informe di cellule” da spazzare via come mestruazioni appena un po’ più ingombranti del solito. David Mamet si è beccato un mare di insulti da quando ha fatto coming out come conservatore. Nel suo libro-saggio “The Secret Knowledge: On the Dismantling of American Culture”, scrive che “come drammaturgo, cioè uno psicoanalista rinnegato, sono stordito dalla constatazione che per la sinistra della mia generazione, l’avatar, la questione dirimente è l’aborto. Sia considerato come tragica necessità sia come assassinio – cioè al di là delle diverse e legittime opinioni politiche – venerarlo come la più importante prova di un liberal, è mitologicamente l’affermazione del diritto ultimo di un paganesimo post-religioso”.

Per tornare al ritratto-requisitoria del New Yorker su Brigham, Press nota che il dottor-nervi-d’acciaio comincia a mostrar la corda per le “persecuzioni” che ha subito. Nel dicembre del 2011, Brigham è stato arrestato per omicidio. Nell’estate precedente, a Elton nel Maryland, dove Brigham non ha la licenza per eseritare come medico, la polizia con un mandato entra in un tetro magazzino, dove trovano un congelatore pieno di sacchi rossi da rischio biologico, che contenevano trentacinque feti da gestazione tardiva. Alcuni di questi avevano più di 26 settimane, cioè il punto dell’autosufficienza totale – bambini, non feti. Il dottore è uscito dopo una settimana, su cauzione di mezzo millione di dollari. Era scosso, ma Press nota che l’unica persona che gli fa pena è lui stesso. Il laureato a Harvard ha ancora delle cliniche aperte in Virginia e New Jersey. L’ineffabile abortista, un pochino meno rocciosamente sicuro di sé dopo tutti i colpi in corso, imputa i suoi guai “alla politica”. Non è affatto escluso che possa riaprire pure quelle chiuse, fra non molto. O altre nuove.

di Anselma Dell’Olio

Blu-Dental

 

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