23/12/2022 di Luca Marcolivio

Giorgio Ponte: «Ecco come e perché la Carriera Alias ghettizza i ragazzi»

Circa sette anni fa suscitò un certo scalpore la sua testimonianza di persona con tendenze omosessuali, profondamente sostenitrice della verità sull’uomo e sulla famiglia naturale. Oggi Giorgio Ponte è uno scrittore affermato, da qualche tempo non insegna più ma la sua esperienza maturata nel mondo della scuola, gli è sufficiente per esprimere un giudizio molto netto sulla carriera alias. A colloquio con Pro Vita & Famiglia, Ponte ha espresso la sua posizione in merito.

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Giorgio Ponte, nella sua esperienza di insegnante, le è mai capitato di affrontare il dibattito sulla carriera alias?

«No, negli anni in cui ho insegnato religione (fino a 5-6 anni fa), non si parlava minimamente di questo e neanche nel periodo in cui ho fatto l’insegnante di lettere, fino a un anno e mezzo fa. Ovviamente, però, si parlava già molto delle tematiche legate all’omosessualità, all’omofobia o all’identità di genere. Durante un dibattito, mi ricordo di una bellissima ragazza un po’ androgina, dai capelli rasati, a cui dissi che il corpo non è un orpello, è qualcosa che sei, non qualcosa che hai e che, fondamentalmente, per affrontare la vita, devi sapere chi sei. Se sai che sei alto 1,20 m, ma ti convinci di essere 1,90 m, questo ti creerà dei problemi. Lei mi rispose che era convinta del contrario. Lì per lì ebbi un attimo di imbarazzo, poi le dissi: “Beh, figlia mia, così vivrai frustrata tutta la vita, perché continuerai a pensare di poter fare cose per te impossibili”. L’alienazione dalla realtà, però, è tale per cui, di fatto, se io posso dire che il mio sesso biologico non esiste, allo stesso modo potrei dire, ad esempio, di essere un gatto. Ancora non si è arrivati a un’aberrazione del genere ma se una liceale può arrivare a fare pensieri del genere sulla propria statura, ormai non ne siamo neanche così lontani».

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Ritiene sia utile che uno studente possa avere un’“identità parallela” all’interno delle mura scolastiche, nel caso in cui viva una situazione di disforia di genere?

«Trovo si tratti dello stesso presupposto errato dell’omofobia: a partire da motivazioni apparentemente positive (tutela di chi vive un disagio, ecc.), si crea un sistema che non fa altro che ghettizzare. Questa rete di tutele da qualunque cosa che possa risultare lesiva o offensiva, rischia di tenere i ragazzi in una sorta di bolla protettiva che non permetterà loro di vivere una relazione autentica con l’altro, che preveda anche il poter avere idee discordanti, senza per questo odiarsi. Questa misura dell’alias arreca però anche un danno allo sviluppo della persona: chi sei e cosa significhi essere uomo o donna, lo scopri a partire da un dato di realtà che è il tuo corpo, man mano che vivi delle esperienze e durante l’adolescenza; quindi, proprio perché questo corpo si sviluppa, è normalissimo possano esserci delle fasi di confusione (oggi si direbbe di fluidità) che sono fisiologiche. Il punto è che queste fasi, così come sono arrivate, se ne andranno, a meno che non intervengano particolari eventi traumatici. In un contesto come quello di vent’anni fa, le confusioni erano custodite da un sistema sociale che ti aiutava a riconoscerti dentro il tuo corpo e quindi a ritrovare le tue risorse, a prescindere da tutte le confusioni che si possono incontrare in questo percorso. Oggi, invece, la carriera alias fa sì che queste fantasie, curiosità e confusioni diventino determinanti. È come se un bambino che si traveste da fiore, venisse preso seriamente dai suoi genitori, impiantato per terra, innaffiato e gli si dicesse: “Vuoi essere un fiore? Se ti impegni lo diventerai…”. Chiaramente sarebbe una follia. Io stesso, quando avevo circa sette anni ebbi la prima manifestazione di uno squilibrio nelle mie figure di riferimento, fantasticando sul fatto di poter essere una femmina, di trasformarmi nell’altro sesso, ecc. Questa cosa si è spenta lentamente, senza che, per questo, nessuno puntasse il dito contro di me, né che nessuno mi assecondasse. Semplicemente si trattava di una confusione e di uno squilibrio che però non toccavano la mia identità. Pur avendo poi sviluppato una tendenza omosessuale, mi sono sempre sentito uomo, anche se facevo fatica a capire che tipo di uomo volevo essere. Invece se io avessi vissuto quelle situazioni nel tempo di oggi, probabilmente sarei già stato operato, mi avrebbero bloccato lo sviluppo…».

E oggi?

«Oggi la situazione è molto diversa: la scorsa estate mi è capitato di vedere ragazze sui 18-20 anni con il seno asportato e i boxer da uomo: un giorno, se Dio vuole, si sveglieranno e si accorgeranno che c’è stato un intero mondo di adulti che non le ha protette. Una mia ex alunna, giorni fa, ha fatto outing su Facebook: ho fatto fatica a capire chi fosse perché, oltre all’aspetto fisico, ha cambiato anche il nome. Quando l’avevo conosciuta, si dichiarava lesbica. Io, che ero il suo insegnante di religione, in una scuola che era piena di lesbiche, le avevo parlato di Luca Di Tolve e di Joseph Nicolosi. Lei mi disse: “è bello che si possa parlare di questo in modo diverso dal solito con un insegnante”. Purtroppo, in quella scuola ci stetti pochissimo, era un incarico di sole due settimane».

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Quando ha rivisto quell’ex alunna su Facebook, cosa ha provato?

«Ho provato dolore. Nella vita di quella ragazza, avrei potuto essere quell’adulto che aiuta a problematizzare quello che stava vivendo, a cercare di capirlo, non di assecondarlo e basta. Chi ti ama, non ti dice che va tutto bene, ti aiuta a guardare la realtà, perché poi tu possa decidere cosa farne. E la realtà non è che tu sei quello che senti di essere; tu sei qualcosa che è dato, scoperto, che interagisce con le cose che fai e che vivi ma che non è arbitrario. La carriera alias va in questa direzione: assecondare tutto ciò che provi, dando per scontato che sia la verità. Ti isolo, ti creo un ghetto, ti separo da quello che sei, non ti aiuto a trovare la tua identità, né a trovare le risorse per stare in un rapporto adulto, alla pari».

Nella sua attività di blogger, invece, qual è il “termometro” tra gli utenti, in particolare quelli che non condividono la sua visione del mondo?

«Come blogger non sono molto costante nella mia produzione, i commenti sono stati disattivati per molto tempo. Questo mi ha tutelato nel 2015, all’inizio della mia sovraesposizione mediatica, quando mi arrivavano commenti violenti e aggressivi che addirittura mi auguravano la morte. Il termometro della situazione penso di averlo soprattutto dalle persone concrete che incontro: ad esempio, molte mamme che mi chiamano perché le loro figlie si dichiarano lesbiche oppure perché – succede sempre più spesso – pensano di essere un uomo o stanno con ragazze che pensano di essere un uomo. Un tempo tutto questo era molto più raro. Statisticamente l’omosessualità era sempre stata più diffusa nel mondo maschile: questa improvvisa diffusione nel mondo femminile credo sia direttamente connessa al fatto che, anche a livello mediatico (penso a Netflix e a molti prodotti della Disney), l’ultimo attacco ora si stia concentrando soprattutto sulla donna. La figura femminile era rimasta l’ultimo pezzo della famiglia che non era ancora stato distrutto; la madre era l’unica figura ancora solida e stabile, oggi invece, complice anche l’utero in affitto, c’è un tentativo di privare la donna della sua essenza».

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