23/01/2023 di Gloria Callarelli

Gender in Rai. Contri: «E’ propaganda. Ecco come dobbiamo difenderci»

Sulla martellante campagna gender sempre più pressante in Rai, come del resto in molte altre emittenti televisive e di streaming - ma anche sui radicali cambiamenti sociali che internet e media stanno operando - abbiamo intervistato il professor Alberto Contri, esperto in pubblicità, comunicazione e media, docente di Comunicazioni Sociali in alcuni Master di diverse università, già presidente della Fondazione Pubblicità Progresso ed ex membro del CdA della Rai.

Professore parliamo delle sempre maggiore ideologizzazione della società rispetto alle tematiche LGBT. Cosa ne pensa del fatto che sempre più spesso vi siano contenuti gender in televisione? Anche e soprattutto in Rai?

«Ne sono profondamente preoccupato. La dirigenza Rai, e non solo, si è fatta promotrice di una vera e propria propaganda LGBT sotto l’egida della “inclusività”, in cui credono fortemente i vertici, a partire dalla presidente Soldi, dal direttore generale e dal direttore dell’intrattenimento Coletta. Che si lamentò durante una conferenza stampa del fatto che Raiuno fosse stata definita Gayuno per la presenza sempre più massiccia di omosessuali nella rete. “A me non interessa con chi vanno a letto i miei collaboratori” disse. Giusto, non interessa nemmeno a tutti noi. Ma ci deve interessare se promuovono ossessivamente le proprie inclinazioni e la propria visione del mondo come fosse l’unica. Facendoci dimenticare il garbo e l’eleganza di Paolo Poli, famoso attore omosessuale, che non ha mai fatto del suo status una bandiera».

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Perché può essere un problema per i bambini e i ragazzi?

«Perché non si capisce come mai si debba promuovere ai piccoli l’esistenza di una opzione sessuale a cui in grandissima maggioranza alla loro età nemmeno pensano. Un conto è educarli al rispetto di tutte le diversità, un conto è spingerli a considerare naturale ciò che naturale non è, nel senso che non corrisponde al disegno della natura per la prosecuzione della specie».

Perché questa scelta da parte di tv, streaming (anche della stessa Disney) di pubblicizzare sempre di più la presenza di personaggi arcobaleno? A quale scopo?

«È un fenomeno che viene da lontano, accuratamente studiato e preparato. Nel mio saggio “La sindrome del criceto” (Editore la Vela, 2020), riporto diversi interventi dell’avvocato Elisabetta Frezza. Questo fatto lo conoscono in pochi: “Nel 1969 Frederick Jaffe, vice-presidente della Planned Parenthood Federation, redasse per l’OMS un memorandum strategico con l’esplicito obiettivo di diminuire la fertilità umana. E tra i mezzi funzionali alla contrazione delle nascite, Jaffe individuò i seguenti: Ristrutturare la famiglia, posticipando o evitando il matrimonio; alterare l’immagine della famiglia ideale; educare obbligatoriamente i bambini alla sessualità; incrementare percentualmente l’omosessualità”. A partire da quel momento, sotto la bandiera dell’inclusività, i movimenti LGBT sono riusciti a pervadere e a occupare i vertici di moltissime grandi multinazionali, che ora si vantano di promuovere corsi di gender per i figli dei dipendenti, e salgono con grande entusiasmo sui carri dei Gay Pride. Grandi società di consulenza hanno diffuso il concetto che promuovendo le teorie gender si vende di più. Ai festival internazionali di audiovisivi di Cannes si tengono seminari appositi che incitano i produttori a promuovere relazioni e personaggi omosessuali nei contenuti per bambini e ragazzi. E il risultato lo vediamo sugli schermi. Ricordo una incredibile affermazione del regista di Euphoria (Sky), una delle serie più diseducative che abbia mai visto: “Una serie che farà andare fuori di testa molti genitori”. E stiamo parlando di imprese che sostengono di promuovere la responsabilità sociale».

E' vero che una comunicazione martellante alla lunga finirà per "plagiare" una mente? Soprattutto quella dei più piccoli?

«Ma certo, e questo non vale solo per i piccoli. Oggi vediamo che una specie di pensiero unico a base di relativismo etico impera in tutti i media. Spiegare poi ad un bimbo di sei anni che volendo potrebbe cambiare sesso, e quanto è bello poterlo fare, è una vera mascalzonata. Anche perché da un po' di tempo stanno emergendo con sempre maggiore frequenza le tragedie di quanti lo hanno fatto senza rifletterci abbastanza, spinti dalla cultura imperante, e ora non potendo più tornare indietro sono letteralmente disperati».

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Ritiene che negli ultimi tempi per imporre certe visioni, magari sui temi etici più sensibili, si metta in atto la teoria della Finestra di Overton?

«Purtroppo è vero. Basta vedere come sono aumentate le scene di violenza sempre più efferata che passano in film, anche sulle reti del Servizio Pubblico, a tutte le ore del giorno. Per non parlare delle scene di sesso più sfrenato. È inutile poi lamentarsi che gli adolescenti non sappiano più distinguere tra fiction e realtà. Da 25 anni insegno agli studenti di 20 anni. Oggi scopro che per loro la fluidità sessuale è considerata una fase naturale. Dimenticando che cosí stanno lentamente dimenticando quanto è importante avere una identità certa».

Che ruolo ha il marketing in tutto questo? E i social? Peggiorano la situazione veicolando con maggiore velocità i messaggi?

«Il marketing cavalca il pensiero unico pensando di sfruttare un vettore gradito al maggior numero di utenti e consumatori possibile. I contenuti diffusi da social media come Tik-Tok, Instagram eccertera, penetrano in profondità nella mente delle classi giovanili. Il mondo della moda e della pubblicità hanno pigiato al massimo l’acceleratore sulla fluidità sessuale. Ma hanno esagerato. Se n’è accorto pure un grande stilista come Armani. Che all’ultima sfilata ha volutamente dato un segnale in controtendenza, presentando coppie rigorosamente eterosessuali, elegantemente e sobriamente vestite, e in atteggiamenti teneri e affettuosi. Ci auguriamo che faccia tendenza, come ha sempre fatto».

Come difendersi da una comunicazione sempre più "stressante"? E’ d'accordo che sia così soprattutto dopo l'avvento di internet?

«Purtroppo i giovani genitori di oggi sono già nati, se cosí si può dire, con il cellulare in mano. Se si ha un minimo di capacità di osservazione, in qualunque pizzeria in cui si ritrovano famiglie con bambini, si vedono spesso due tavoli, uno con i grandi e uno con i bambini/ragazzi: tutti stanno con la testa china sul cellulare. Viviamo in un’epoca che ho definito nel mio saggio “McLuhan non abita più qui?”: “L’era della costante attenzione parziale”. Si vive di frammenti e quindi si rielaborano poi frammenti. Per questo la maggior parte dei ventenni che incontro in università hanno un pensiero sempre meno strutturato e una notevole difficoltà a esprimersi in forma compiuta. Come antidoto occorre incrementare fin da piccoli la scrittura e la lettura, contingentando il tempo passato davanti a tv, videogiochi, cellulare, internet. Su Youtube sono disponibili i vecchi cartoons di Disney, e tanti altri contenuti ancora capaci di veicolare a bambini e ragazzi valori di identità solidi e duraturi. Alla fine, si chiama educazione. O è una parola troppo poco moderna?».

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