06/02/2019

Gay, parla lo psicologo G. Ricci: « Terapie riparative non impongono alcuna ‘conversione’ »

Presentato e mai discusso durante la precedente legislatura, come un fiume carsico, potrebbe riemergere il Ddl per la messa al bando delle cosiddette “terapie riparative” rivolte alle persone con tendenze omosessuali. A risollevare la questione è stato l’ex senatore Sergio Lo Giudice, presidente onorario di Arcigay, a seguito dell’adozione di una normativa simile nello Stato di New York, il quindicesimo degli Stati americani a vietare, solo verso i minori, questa pratica psicoterapeutica, peraltro ampiamente incoraggiata da molti psicologi cattolici.

Definendo le terapie riparative “inutili” e “dannose”, perché, a suo avviso, potrebbero provocare «la perdita di autostima e causare auto-stigma», Lo Giudice, pur precisando che «ora non è aria di riforme di questo genere», ha accusato quei «pezzi di associazioni cattoliche che, pur senza rivendicare in maniera esplicita la bontà di queste pratiche, le avallano e contribuiscono a creare il clima perché possano essere praticate». La grande confusione intorno alle terapie riparative sorge anche dal fatto che molte associazioni cattoliche – Courage Italia su tutte – negano di offrire tali pratiche, affermando di limitarsi soltanto a un “aiuto spirituale”.

A dissipare un po’ la nebbia ci ha pensato Giancarlo Ricci, psicologo e psicoanalista di scuola lacaniana, da tre anni sotto processo dal Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, per aver affermato, tra l’altro, che «la funzione di padre e madre è costitutiva del processo di crescita del figlio». Una vicenda, quest’ultima, che è stata raccontata in prima persona dallo stesso psicologo, nel suo libro Il tempo della postlibertà. Destino e responsabilità in psicoanalisi (Sugarco), di recentissima pubblicazione. A colloquio con Pro Vita, Ricci ha chiarito alcuni dei termini di una questione molto delicata e facilmente equivocabile.

Ricci, cosa si intende realmente per “teorie riparative”?

«Va fatta una premessa: nell’ambito della psicologia clinica, alcuni autori sostengono che qualsiasi terapia rivolta a un disagio psichico in fin dei conti è una “riparazione”, da intendersi come il tentativo di ripristinare una condizione di benessere precedente.
La polemica verso la terapia riparativa è sorta fin dagli anni ’80, quando a Los Angeles, Joseph Nicolosi e altri clinici avviarono l’idea di una reparative therapy. Queste due parole sono state subito intese nel senso di “riparare gli omosessuali” costringendoli a ritornare etero. Non è affatto così: in termini clinici si tratta essenzialmente di un lavoro di riconciliazione con la figura paterna. Questa molto spesso è risultata problematica per il soggetto fino a interferire nella costituzione dell’identità sessuale del figlio maschio. Semplificando, secondo la scuola di Nicolosi, l’orientamento sessuale verso lo stesso sesso è l’indice della difficoltà che un soggetto ha incontrato, anche prima della pubertà, nella relazione identificatoria con il padre. Questa difficoltà si ripresenta in seguito come un’insicurezza o un’inadeguatezza della propria identità maschile. Affrontare questa difficoltà non vuol dire “guarire” dall’omosessualità. Del resto, ci sono varie forme di omosessualità. Qui stiamo parlando di situazioni egodistoniche ossia quando un soggetto avverte con disagio la propria tendenza omosessuale. Conta molto, anzi è decisiva, la scelta che man mano attua il paziente: è una scelta che assolutamente va rispettata».

Perché allora tante polemiche e tanta ostilità nel mondo Lgbt?

«Per i movimenti gay e Lgbt l’omosessualità è una forma naturale di sessualità come l’eterosessualità. Sostengono inoltre che “omosessuali si nasce” e che pertanto è assurdo curare l’omosessualità in quanto non è una malattia. La terapia riparativa di Nicolosi ha messo in discussione questi capisaldi ideologici. Non si nasce omosessuali, in tal senso non c’è alcuna dimostrazione scientifica accreditata. Proprio per questo il terapeuta può prendersi cura di questo disagio senza imporre alcunché al paziente, ma invitandolo a rielaborare storicamente la propria vicenda familiare e le proprie scelte soggettive.
Molte polemiche sono sorte anche grazie alla sovrapposizione della terapia riparativa con alcuni movimenti religiosi e spirituali che, attraverso l’accompagnamento spirituale o la condivisione in un gruppo, ritengono che si possa “superare” l’omosessualità astenendosi da agiti o che, attraverso un percorso di fede e di preghiera, si possa migliorare il disagio arrecato da questa tendenza. Questa confusione ha acuito le polemiche.
Bisogna distinguere, per fare chiarezza, tra omosessualità e omosessualismo. Mentre il primo termine indica una tendenza soggettiva e privata, l’omosessualismo si presenta oggi, insieme alla visione gender, come un tentativo che ha come obiettivo finale quello di “sdoganare”, culturalmente e socialmente, l’idea secondo cui due persone dello stesso sesso possano godere del diritto di “avere” dei figli, tramite l’adozione o l’utero in affitto. In questi casi è in gioco un figlio, ovvero un elemento terzo rispetto alla coppia. Le implicazioni sociali sono ben più ampie».

Possiamo quindi affermare, senza tema di smentita, che le terapie riparative non puntano in alcun modo alla “conversione” dell’omosessuale?

«Nessuna terapia psicologica può promettere il raggiungimento di un risultato finale. E dunque nemmeno le cosiddette terapie riparative. Il motivo prima di essere clinico è etico. Il terapeuta, in qualsiasi caso, non può essere pensato come un taumaturgo in grado di imprimere magicamente una svolta nella vita di un paziente. Questa è una visione ingenua della pratica clinica e fa comodo alle ideologie ritenere che sia così.
Per esempio, nella mia esperienza clinica ho incontrato molti pazienti, più o meno giovani che, consultando altri psicologi si erano sentiti dire: “Non posso far altro che lavorare per far sì che lei possa convivere meglio con la sua omosessualità”. Questo li deprimeva molto. Il problema è che non si tratta, come scopo immediato, di “guarire da qualcosa” ma di elaborare la propria storia, di intendere il tessuto familiare da cui proveniamo e di favorire un lavoro psichico in merito al mondo pulsionale e alla sessualità. Che cosa accada poi, in che sentieri proceda il lavoro analitico, non lo sa né il paziente né il terapeuta. Insomma, la terapia non può essere paragonata a un farmaco. Le vicende umane sono complesse; l’identità sessuale si sviluppa e diviene “operativa” lungo un processo di quasi vent’anni, dalla nascita all’adolescenza compiuta.
Oltretutto, ci sono varie forme di omosessualità. Un conto è il gay che è spinto continuamente a cambiare partner, altra cosa è un ragazzo che, nella crescita, ha fantasie omosessuali e che, per questo, crede di “essere” omosessuale».

In Italia quanto sono praticate le terapie riparative?

«Non sono considerate perché c’è stata una presa di posizione intimidatoria da parte dell’Ordine professionale nazionale e di alcuni ordini regionali. Ci sono già state sanzioni significative verso psicologi. Dunque, molti professionisti se ne tengono alla larga anche se a livello teorico e clinico c’è in realtà molto interesse per queste problematiche. In altro ambito, non psicologico, mi risulta vi siano alcune associazioni, come appunto Courage, che accolgono persone sofferenti desiderose di avviare un percorso spirituale e di fede».

Luca Marcolivio

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