27/07/2022 di Giuliano Guzzo

Festival “transfemminista” a due passi da una chiesa. E’ questo il rispetto?

A due passi da una chiesa. Proprio così: il FəmFest, e cioè «il primo festival transfemminista della regione Marche», avrà luogo a Monte Urano – 8.000 anime in provincia di Fermo - vicino alla piazza principale del paese, a meno di 100 metri dalla chiesa. Una scelta, quella di far svolgere in quel luogo questa manifestazione – che si terrà il 30 e 31 luglio –, che pare quanto meno opinabile.

Per quanto si ci si sforzi, infatti, è dura non vedere in tale decisione una provocazione ai danni della sensibilità ai fedeli del luogo. Il Corriere Adriatico, nel raccontare la vicenda, ha scritto: «La polemica è servita». Avrebbe però dovuto dire che «la polemica è cercata», dal momento che è inevitabile – di più, è matematico - come una manifestazione in salsa Lgbt allestita nelle immediate vicinanze di una chiesa generi malumori; sarebbe quasi strano il contrario. E il fatto è che probabilmente non si tratta di un caso. Ci spieghiamo meglio.

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Il luogo dove avrà luogo questo FəmFest è stato senza dubbio concordato con il Comune, tanto è vero che il festival in parola ha ottenuto il patrocinio comunale, con il logo dell’amministrazione che compare in primo piano anche sull’home page del portale ufficiale internet dell’evento; ciò nonostante, è indubbio come una parte del mondo arcobaleno e transgender stia cercando lo scontro con la Chiesa e la comunità cristiana. Basti vedere i cartelli che, da tempo, vengono esibiti durante il gay pride.

Recentemente, per dire, al Palermo pride hanno sfilato immagini che, disegnate a mo’ di santini, contenevano scritte come: «La Santuzza marcia con noi. L’orgoglio di affermare sé stessa contro ogni normazione». A inizio giungo al Cremona pride si è vista invece una statua della Vergine Maria a seno scoperto e volutamente blasfema, al punto che perfino il sindaco della città Gianluca Galimberti - che ha concesso il patrocinio alla manifestazione – si è sentito in dovere di fare parziale marcia indietro, dicendo che comprende pure coloro «che non condividono alcune idee che possono emergere» dall’evento.

Dove non arrivano i festival e i pride, arrivano gli attacchi e gli sfregi: sempre rigorosamente anticristiani. Per dire, nelle scorse ore in Francia, a Lione, è stata presa di mira una libreria religiosa – cattolica, per l’esattezza – sulle cui mura esterne sono state lasciate scritte ingiuriose quali: «Dio è morto, l’abbiamo ucciso», «né dei né padroni», «LgbtQI+ per sempre». Purtroppo non è la prima volta che nella città d’Oltralpe accade un fatto simile: era già successo nel 2020, guarda caso sempre a danno di una libreria cristiana. Ecco che allora, tornando a quanto avrà a breve luogo a Monte Urano, viene davvero da chiedersi fin dove arrivi il diritto di manifestazione e di espressione, e dove invece debba iniziare il dovere di rispettare anche le sensibilità valoriali e religiose altrui.

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Il fatto è che l’anticattolicesimo non solo è accettato, ma sta diventando parte integrante della cultura dominante. La sociologia già da tempo si è accorta del problema, tanto che il professor Philip Jenkins, docente alla Baylor University, già venti anni or sono ha parlato dell’anticattolicesimo definendolo The Last Acceptable Prejudice (Oxford University Press, 2003), «l’ultimo pregiudizio accettabile appunto». Solo, è paradossale che esso sia accettato da una cultura e da una società che si riempie la bocca di termini quali “tolleranza” e “diritti”, dimenticandosi di precisare che i “diritti” sono sempre quelli degli altri. Non certo quelli dei cattolici: contro di loro – e contro chi crede anche laicamente ai valori della vita, della famiglia e della libertà educativa -, tutto è purtroppo concesso. O quasi.

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