26/10/2016

Femminicidio: una (convincente) diagnosi del fenomeno

C’è un grande parlare oggi di femminicidio.

Inizialmente una domanda sorge spontanea: cosa mai può spingere un uomo a trasformarsi in molestatore, stupratore, assassino? Non c’è dubbio,  ci dicono i venerati maestri della stampa e della politica: è colpa di una mentalità retrograda, patriarcale, terrorizzata dalla novità dell’autonomia femminile. Una volta stabilita la diagnosi, anche la terapia anti-femminicidio appare scontata: servono nuove leggi e pene più aspre contro il maschilismo.

Ma le cose stanno davvero così? Mancano leggi e punizioni? No, replica l’avvocato Barbara Spinelli, colei che ha importato in Italia il termine “femminicidio”. Le norme non mancano né serve inasprirle: in vent’anni la normativa si è ampliata e ora può contare su leggi che puniscono la violenza sessuale (1996), lo stalking (2009) e il femminicidio (2013).

Dunque è un problema di educazione? Sarà così, ma il richiamo a un più sostanzioso impegno educativo, come spesso accade, ci pare più una specie di ultima spiaggia quando non sappiamo che pesci pigliare...

Forse il problema allora è un altro: una diagnosi sbagliata sulla natura di questo fenomeno. 

Chi lo dice infatti che il femminicidio sia solo l’ultimo colpo di coda del patriarcato? Chi lo dice che non abbia nulla a che fare con la modernità? Se le cose stanno così, come si spiega il fatto che il maschio femminicida è ben diverso dal «padre terribile» della cultura patriarcale? Sì, perché a ben vedere questo maschio assassino – ce lo mostra un acuto osservatore delle cose della psiche come Alessandro Meluzzi – è un «maschio fragile», nato e cresciuto in una società a «monogamia seriale», fatta di legami flessibili che si formano e si spezzano in successione.

Il maschio fragile è un essere che, non avendo sperimentato nell’infanzia legami di attaccamento a base sicura, fondamentali per una psiche sana, è terrorizzato dalla paura dell’abbandono. Un mondo di affettività liquide, di diffuso precariato di coppia, genera personalità fragili destinate a vivere ogni separazione all’ìnsegna di un perenne psicodramma perché, scrive Meluzzi, fa scattare in quel bimbo fragile – anche se ormai diventato un maschio adulto di trenta, quaranta, cinquant’anni – «l’identificazione tra la donna che lo abbandona e una madre abbandonica, disturbata e disconfermante che egli ha cercato per tutta la vita di sostituire».

Ogni donna per il maschio fragile è una «madre riparatoria», con la quale instaurare un rapporto di fusione sempre a rischio di degenerare in una relazione distruttiva, possessiva, intessuta di una gelosia morbosa, cupa e nevrotica. Il maschio fragile è incapace di tollerare la perdita della donna amata. Quando ciò accade ritorna allora un fanciullo feroce, degenerato, che reagisce all’abbandono non con l’elaborazione del lutto ma con quella rabbia provocata da un dolore inconsolabile.

Come accade agli adolescenti borderline, preda di deliri di onnipotenza, il maschio fragile si scaglia allora contro il perduto oggetto del desiderio, che non può possedere né controllare. La fusione spezzata riporta al mai superato dolore infantile, facendolo precipitare in una spirale di violenza devastatrice.

La psicologia del maschio violento è quella di un immaturo incapace di contollarsi. Da qui la tendenza a reagire emotivamente, in maniera inconsulta e psicotica.

In sostanza la sindrome del maschio fragile, violento e assassino è una storia tipicamente occidentale. Una sindrome che combacia con la crisi profonda  della famiglia: «Un mondo in cui si considera fisiologico che un matrimonio su due vada incontro a separazione o divorzio – osserva Meluzzi – è un mondo dove il concetto di legame e di attaccamento sono diventati labilissimi nel senso comune. E anche i legami si formano alla luce di questa considerazione: ci si sposa, tanto se le cose dovessero andare male si può divorziare. Questo ragionamento, anche solo trent’anni fa, sarebbe stato inconcepibile. Tutti i rapporti vengono iniziati per essere considerati fallimentari per loro stessa intrinseca natura».

Si tratta, fa notare lo psichiatra di origini napoletane, di una dimensione squisitamente occidentale: un principio cardine dell’individualismo liberale secondo cui la libertà individuale prevale sempre sul legame comunitario.

La lezione non potrebbe essere più chiara: il femminicidio è il prodotto di una crisi strutturale, la crisi della famiglia occidentale. Se davvero vogliamo  combattere il femminicidio dobbiamo smettere di combattere la famiglia.

Andreas Hofer


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