22/07/2013

Fecondazione assistita? La “napro” è più efficace ed è “cattolicamente corretta”

Infertilità e figli: esiste un metodo migliore, più economico e meno invasivo della procreazione artificiale. Ma è troppo “naturale” per non dare fastidio alla lobby della provetta.

Ha un tasso di riuscita che è il doppio di quello della fecondazione assistita, per percentuali di nascite da coppie che seguono i trattamenti, e costa undici volte di meno, ma è praticata da pochi medici in tutto il mondo, boicottata dalla lobby della provetta e ignorata dai sistemi sanitari nazionali. La naprotecnologia è nata negli Stati Uniti e da qualche anno è approdata in Europa, ma continua a scontare il pregiudizio che la considera un approccio confessionale alla medicina, condizionato dai dogmi religiosi. Niente di più lontano dalla realtà. Se è vero che le pratiche della naprotecnologia si conformano rigorosamente alla bioetica cattolica, è altrettanto dimostrato che il suo approccio al problema della sterilità è scientificamente e clinicamente più rigoroso di quello praticato nell’ambito della fecondazione assistita. E per questo alla fine è anche più efficace: lo dicono le statistiche.

«La differenza fra naprotecnologia e fecondazione in vitro consiste nel fatto che nella prima la questione fondamentale è la diagnosi delle cause dell’infertilità, si cerca una spiegazione medica del perché una coppia non riesce a procreare, quindi si cerca di eliminare il problema e “aggiustare” il meccanismo naturale, ridandogli la sua armonia», spiega Phill Boyle, il ginecologo irlandese che tiene i corsi di formazione in naprotecnologia per medici di tutta Europa in una clinica di Galway. «Nel procedimento in vitro, invece, la diagnosi delle cause non ha importanza, i medici vogliono semplicemente “aggirare l’ostacolo”, eseguendo una fecondazione artificiale. In naprotecnologia, la cura risolve il problema della coppia, che poi può avere anche altri figli. Con il metodo in vitro, i coniugi comunque non guariscono e continuano ad essere una coppia sterile, e per avere più bambini si devono sempre affidare a un laboratorio». «La naprotecnologia è la vera fecondazione assistita», ironizza Raffaella Pingitore, la ginecologa chirurga più esperta nel metodo dell’area di lingua italiana, attiva presso la clinica Moncucco di Lugano. «Nel senso che assistiamo il concepimento dall’inizio alla fine, cioè dalla fase di individuazione dei marcatori di fecondità nella donna fino agli interventi farmacologici e/o chirurgici che si rendono necessari per permettere alla coppia di arrivare in modo naturale al concepimento».

Il nome deriva dall’inglese “natural procreation technology”, tecnologia della procreazione naturale. Più che una tecnologia è un insieme di tecniche diagnostiche e interventi medici che hanno per obiettivo l’individuazione della causa dell’infertilità e la sua puntuale rimozione. Si parte con le tabelle del modello Creighton, che descrivono lo stato dei biomarcatori della fecondità durante tutto il ciclo mestruale della donna, e che sono basate principalmente sull’osservazione dello stato del muco cervicale da parte della donna stessa. Il pilastro che regge tutta la naprotecnologia è la capacità di osservazione di sé della donna: ad essa viene formata nella parte iniziale del percorso. Le tabelle correttamente compilate, con lo stato del muco cervicale giorno per giorno e altri dati, sono la base di tutti i passi successivi. Da esse è già possibile diagnosticare carenze ormonali, insufficienze luteali e altri problemi trattabili con la somministrazione degli ormoni mancanti. Se l’infertilità persiste, si prosegue con l’esame dettagliato del livello degli ormoni nel sangue, l’ecografia dell’ovulazione e la laparoscopia avanzata. Possono allora rendersi necessari interventi di microchirurgia delle tube o di laparoscopia avanzata per rimuovere le parti danneggiate dall’endometriosi. Il risultato finale è una percentuale di nati vivi fra il 50 e il 60 per cento del totale delle coppie che eseguono i trattamenti per un massimo di due anni (ma la maggior parte concepisce nel primo anno), contro una media del 20-30 per cento fra chi ricorre ai cicli della fecondazione in vitro (generalmente sei cicli).

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di Rodolfo Casadei

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