19/11/2019

Eutanasia e aborto. Ecco a cosa ci hanno portato

La persona è un soggetto di relazione (dicevamo in un numero della nostra rivista).  Lo è persino quando si trova in uno stato “vegetativo” (si pensi ai tanti che dopo esservi usciti hanno detto di aver ascoltato quanto veniva detto intorno a loro) o quando si è ancora nel grembo materno (vedi il rapporto materno fetale). La vita di ogni essere umano è profondamente impregnata di legami, come quelli familiari o affettivi, che la caratterizzano profondamente, dal suo inizio fino alla fine.

La morte (materialmente parlando) è la disgregazione di questi rapporti terreni. Il distacco da essi, specie se si tratta di quelli più significativi, è all’origine di un trauma, più o meno acuto, che colpisce chi dei due è ancora in vita, nel periodo da tutti chiamato “lutto”.

La morte di un proprio caro, pertanto, non è bella: è una tragedia da scongiurare.

L’ideologia sessantottina, con un intenso lavoro di lavaggio mediatico del cervello, è riuscita a mostrare il nascituro (vilmente e impropriamente chiamato “grumo di cellule”) come “nemico” della donna, della sua libertà e della sua emancipazione. Non più un figlio, ma un ostacolo.

È per questo che è diventato pensabile (oltre che, purtroppo, legale) l’aborto (che, sì, esisteva anche prima, clandestinamente, ma era da tutti, giustamente, ritenuto un atto turpe).

Resa mentalmente accettabile, per l’opinione pubblica, o addirittura auspicabile la morte di un bambino nel grembo materno, in nome del “diritto alla scelta”, nulla vieta che sull’altare di questo fantomatico “diritto” vengano sacrificati anche altri, che non siano i non nati.

E dunque, le ideologie pro morte stanno lavorando affinché diventi accettabile l’idea di “aiutare a morire” un proprio caro, modificando radicalmente il concetto di “compassione” e proponendo l’eutanasia come risposta alla sofferenza dei più vulnerabili.

Svegliamoci in tempo: come possiamo permettere che una situazione di sofferenza possa portarci via le persone che amiamo? È vero, prima o poi tutti moriremo. Ma perché affrettare questo momento, spezzando, così, quel rapporto unico e irripetibile che si era creato con chi avevamo a cuore?

Vogliono farci sembrare l’eutanasia e l’aiuto al suicidio degli “atti di carità”. Non cadiamo nella trappola! Le sofferenze si possono lenire con le cure palliative, con l’assistenza psicologica e soprattutto con il calore affettivo.

Non permettiamo che diventi “normale” per noi l’idea di poter condurre a morte una persona che amiamo. È una trappola da cui non si torna indietro.

 

di Luca Scalise                                                              

 

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