Una buona notizia per le donne: la Somalia, forse, è pronta a mettere fuori legge la pratica delle mutilazioni genitali femminili sul proprio territorio.
Un’usanza ancora oggi molto diffusa, e non solo negli Stati africani.
La notizia della Somalia è riportata da La27esimaOra, il blog del Corriere della Sera targato di rosa: vi scrivono moltissime donne e i temi trattati sono spesso legati ai diritti del gentil sesso.
Nell’articolo viene riportato che il primo ministro somalo, Omar Abdirashid Ali Sharmarke, avrebbe sottoscritto una petizione nell’abito di una campagna per abolire la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF). Una triste realtà che interessa quasi il 90-95% delle donne del Corno d’Africa (e il 98% delle donne somale), che spesso vengono sottoposte a questa operazione in tenerissima età.
Quella della mutilazione genitale femminile è una pratica che risale all’antico Egitto, che si è diffusa anche in età greco-romana, in alcuni casi, e che è ancora praticata in nome dell’Islam. In un hadit contenuto nel Corano, infatti, questa pratica viene raccomandata nei confronti delle donne, e quindi viene tuttora concepita in molti Paesi come una consuetudine legata alla religione islamica. Una vera e propria norma religiosa da applicarsi in conformità con la Sharia. Le donne che non vengono mutilate, di conseguenza, sono considerate impure dalle società islamiche e, addirittura, una moglie che non è stata mutilata ‘a regola d’arte’ può essere ripudiata dal marito.
Ma dietro le mutilazioni genitali femminili si nasconde il dramma fisico e psicologico delle donne che le subiscono. Donne che non avranno più una vita sessuale serena e che sono predisposte ad avere difficoltà durante il parto – fino ad arrivare a conseguenze estreme, come la morte della mamma e/o del bambino -, ad emorragie, a infezioni delle vie urinarie, ad incontinenza e a facilità nella trasmissione del virus HIV. Per non parlare poi dei problemi psicologici che rimarranno per tutta la vita.
Alcuni Stati africani hanno dunque iniziato a correre ai ripari, cercando di mettere fine a questa pratica tanto desueta, quanto assurda. Come per esempio la Nigeria, che dal 2015 considera l’infibulazione un reato perseguibile con la reclusione fino a quattro anni in carcere e con una pena pecuniaria pari a 900 euro, o il Gambia che, sempre nel 2015 ha abolito le mutilazioni genitali femminili, istituendo pene fino a tre anni di carcere e multe – salatissime, per gli standard economici dei cittadini del Paese africano – di 1200 euro.
Anche la Somalia, quindi, sta per dire basta a questa pratica. Il merito è di una delle vittime della mutilazione genitale femminile, Ifrah Ahmed. È lei l’attivista che ha lanciato la campagna contro l’infibulazione, con il supporto del ministro delle politiche femminili, Sahra Samatar, che si è invece occupata di redigere una proposta di legge ad hoc.
Anastasia Filippi