Abbiamo riportato giorni fa l’articolo del Corriere.it di Monica Ricci Sargentini: ha sofferto di disforia di genere, da ragazzina, ma “per fortuna non ha cambiato sesso”.
Oggi proponiamo l’analoga testimonianza di una donna e di suo figlio. Questa storia è decisamente più tragica e più sofferta, anche perché coinvolge, appunto, una madre e un figlio.
Nonostante la vicenda sia estremamente dolorosa e angosciante, lascia alla fine aperta la porta della speranza. Ringraziamo il blog Omosessualità e identità per il prezioso contributo che offre alla ricerca della verità.
Ho superato i miei problemi di identità (DIG Disforia di Genere) in un tempo dove la società ancora ti permetteva di superarli, trovando delle naturali strategie psicologiche. Non venivano pubblicizzate tante “alternative”, per mia fortuna, e l’unica possibilità era quella di imparare ad adattarsi alla realtà.
La maggior parte dei bambini con DIG, specialmente se aiutati a sanare le dinamiche famigliari distorte, risolvono spontaneamente questo problema in 2 modi: procedendo verso l’eterosessualità (un tempo ciò accadeva a quasi tutti), oppure dirottando verso l’omosessualità (oggi più di ieri). Questo tipo di bambina di cui sto parlando vive psicologicamente come un ragazzino, si riconosce in questa sua identità manifestandolo in 2 modi principali: il primo nel vestirsi, giocare, relazionarsi e fare tutto come un maschietto (“io sono come loro”), il secondo (successivo rispetto al precedente), riuscendo a percepire questa sua identità falsata anche nel relazionarsi con le bambine (“loro sono diverse da me e questo conferma il mio sentirmi maschio”). Questo secondo tipo di vissuto, rapportato a oggi e con la mentalità corrente, può portare prima verso l’omosessualità e in seguito in alcuni casi anche verso la transizione. Ovviamente per i maschi il discorso è analogo, ma all’inverso.
Tornando al mio passato, non trovando alternative diversificate né nella società e tanto meno nella mia testa (ma nemmeno trovando l’aiuto dei genitori nel cambiare le dinamiche famigliari), ho risolto il tutto in un modo spontaneo ma anche un po’ contorto. Mi spiego.
Dapprima mi sono trovata a vivere i rapporti come un “omosessuale” uomo fa senza rendersene conto, cioè prendevo dagli uomini la loro virilità che sentivo essermi stata negata. In poche parole mi sentivo empaticamente appagata nel guardare e toccare loro. Per i primi anni sono stati rapporti sempre solo vissuti a senso unico, non permettevo loro né di toccarmi e né di spogliarmi, era troppa la vergogna che provavo nel mostrarmi donna.
Però con il tempo, vivendo empaticamente il loro piacere, sentendomi desiderata dagli uomini, ho iniziato a vivere e sentire come desiderabile e piacevole anche la mia identità femminile che sempre più ha trovato il coraggio di emergere. Più alimentavo il loro piacere, più aumentava anche il mio e nel contempo aumentava l’apprezzamento per quello che ero veramente. Fin dalla mia più tenera età avevo iniziato a capire che il mio desiderio ossessivo d’essere bambino corrispondeva anche al timore inconscio di “deludere” i genitori ogni volta che ero costretta a smascherarmi come bambina.
LA MIA IDENTITA’ FALSATA ERA LEGATA A LORO, ALL’IMPRESCINDIBILE BISOGNO D’ESSERE ACCETTATO E PERCIÒ AMATO CHE HA IL BAMBINO DA PARTE DEI GENITORI. UN BISOGNO VITALE CHE ARRIVA ANCHE A NEGARE LA PROPRIA IDENTITÀ SE INCONSCIAMENTE ANCHE ERRONEAMENTE PERCEPISCE CHE COSÌ DEV’ESSERE PER ESSERE PIÙ AMATO.
LA DIG (Disforia di Genere) infantile è prima di tutto un problema d’amore e di accettazione, d’identità solo di conseguenza e in apparenza. Quando mi chiedevo perché piangevo e volevo essere a tutti i costi un maschio, non riuscivo a darmi risposte, ma quando mi arrabbiavo e volevo andare contro questa mia identità imponendomi di fare cose da bambina, magari chiedendo regali da femmina, appena mi immaginavo nel farlo sentivo una sensazione frammista a vergogna e senso di deludere i genitori e non lo facevo (deludere i genitori corrispondeva alla paura di non essere più amata).
C’era una madre dominante, non accogliente, quasi ostile che attuava differenze discriminanti evidenti tra noi figlie femmine e il maschio più piccolo. C’era un padre completamente assente, che però prendeva sempre le mie difese, anche perché ero l’unica che lo aiutava nei lavori ; questo faceva arrabbiare ancora di più la mamma nei miei confronti. Perfino apertamente mi diceva del suo disagio provato ogni volta che ero presente in casa. Solo dopo la grande gioia di essere diventata mamma a mia volta, questa ferita è guarita completamente da sola, anche nel bisogno affettivo. Inutile dire che come sono spariti i miei problemi, sono iniziati quelli del figlio.
Ero stupita di come così piccolino cercasse la figura di un padre. Il padre biologico è un uomo cresciuto a sua volta senza il padre, morto quando lui aveva pochi mesi di vita, e quando gli ho dato la notizia dell’arrivo di nostro figlio ha ritenuto, dopo aver appreso il mio rifiuto alla sua richiesta di abortire (cosa che non accettò), di andarsene sostenendo che il bambino sarebbe potuto crescere “bene come lui” anche senza la presenza di un padre (?). Lui infatti era cresciuto “così bene” che, non avendo sperimentato il valore di quella importantissima figura di riferimento che è quella del padre, ha lasciato anche suo figlio solo, inconsapevole di quanto lo stava così penalizzando. (Avrei potuto obbligarlo a riconoscerlo, ma non se lo meritava).
Questo per sottolineare come l’assenza di un genitore si può ripercuotere negativamente in modi molto diversificati nello sviluppo della persona. Il padre biologico di mio figlio sarebbe stato uno di quei bambini che sfuggono dalle statistiche dei figli con disagi dovuti alla mancanza di un genitore: alle scuole superiori aveva vinto perfino un premio come miglior allievo, ma, come dimostrato dalla realtà, le ripercussioni negative possono emergere durante tutto l’arco della vita, magari quando meno ce la si aspetta, e assumere molti volti.
Mio figlio si affezionava ad ogni uomo che instaurava un qualche piccolo rapporto con lui e appena scopriva che non c’era più ne soffriva terribilmente, con manifestazioni di sofferenza anche molto evidenti in più circostanze. Questo non succedeva mai con le donne che si occupavano di lui mentre io lavoravo. In seguito mi sono legata ad un uomo che non è riuscito a dargli tutte le piccole attenzioni che un vero padre avrebbe dovuto dare… favorendo le 2 figlie femmine. Come avrei potuto fargliene una colpa, quando sono stata io a mettere al mondo un figlio senza il padre?! Piuttosto dovevo essergli grata per tutto ciò che in ogni caso ha saputo dare.
Così ho iniziato ad essere iper-protettiva, a cercare di separare il figlio nella quotidianità da quest’uomo che era anche diventato suo padre per adozione. Istintivamente la mia intenzione era quella di evitargli delle sofferenze. Probabilmente alcune le ho evitate, ma ne ho causate altre. Vedevo crescere nel figlio un’eccessiva vergogna verso la sua sessualità, proprio come avevo vissuto anch’io fin dai primi anni di vita, mentre per lui questo è iniziato dopo i 6, 7 anni, nella nuova situazione famigliare e dopo la nascita della sorellina. Ora nessuno lo doveva più vedere nemmeno in mutande e quando indossava un pigiama aderente si piegava in avanti per nascondere le sue forme, tirando giù il più possibile il sopra del pigiama.
Facendo ricerche in base ai suoi strani comportamenti, trovai che avevano un’analogia con i ragazzi che subiscono abusi sessuali. Eppure ero certa che non era il suo caso. Successivamente in adolescenza, con tutti gli atteggiamenti tipici di chi non accetta di vedersi trasformare in uomo, ho appreso della “sua omosessualità”. Dal canto mio non mi ero preoccupata più di quel tanto, perché credevo fosse solo una fase passeggera adolescenziale, un volersi conformare per ribellione alla nuova mentalità della società.
Ha iniziato a frequentare “ambienti per adolescenti alternativi” di Milano dove sopraggiungevano attempati uomini adulti che approfittavano dei ragazzini (c’è un riscontro oggettivo anche nei verbali della procura dei minori) e ne è talmente rimasto deluso che per anestetizzare il tutto, si è buttato nella droga facendo precipitare la situazione in modo molto tragico. Solo allora ho iniziato a fare ricerche nei web su tutto quanto raccontavano a proposito di omosessualità. E’ stato incredibilmente scioccante, come accendere non solo una lampadina, ma un enorme faro nel buio
Subito dopo aver letto che alcune bambine con forti problemi d’identità arrivano anche a fare la pipì in piedi, ho capito che ciò che ha convissuto con me per i primi quasi 30 anni della mia vita si chiamava disforia di genere. Non avevo mai saputo dare un nome a tutto quel che avevo provato e vissuto, in un tempo dove la società ti obbligava a reagire senza tanti se e ma. Ma nemmeno sapevo che fosse un problema di molti, o anche solo un problema… ero semplicemente io, una bambina che piangeva perché a tutti i costi voleva essere un maschietto, che modellava il pube sperando che crescesse il pene e che credeva di essere nata nel corpo sbagliato, che ha sempre giocato al calcio a casa, a scuola e in seguito nelle squadre femminili anche di Hockey su ghiaccio, senza mai fare la doccia con le altre ragazze fino ad oltre i 22, 23 anni, poiché pur avendo un corpo statuario, mi vergognavo nel mostrare la mia femminilità.
Sono stata per 4 anni alle scuole medie, con un maschio quale compagno di banco. Avevo il culto della muscolatura e della forza fisica e ogni giorno mi allenavo in tutti i modi per aumentarle. Mi piaceva battermi con i ragazzi, sfidarli e vincere. Bucavo i genitali e i seni delle Barbie di mia sorella con gli aghi provando piacere nel farlo e mi chiedevo come mai facessero dei giocattoli così provocanti dal lato sessuale e come mai la mia mamma e mia sorella sembravano non accorgersi che erano erotiche e che gli facevo i buchi, mentre l’unico bambolotto che ho accettato in regalo, era un bambino con il pene di plastica che faceva la pipì, anche in quel caso l’ho voluto solo perché aveva il pene e mi sembrava strano che la mamma me lo lasciasse prendere senza capire che era quello lo scopo della mia scelta.
Già attraverso questi 2 tipi di giocattoli sessuati al maschile e al femminile percepivo me stessa nei 2 modi differenti in cui mi sarei potuta realizzare sessualmente nel futuro, combinatamente alla DIG, il primo nel percepirmi uomo che possiede il corpo di una donna (la Barbie rappresentava una possibile apertura verso l’omosessualità, se avessi saputo che esistevano questo tipo di persone) e il secondo vivevo quel pene empaticamente come fosse il mio (il bambolotto invece rappresentava un’apertura verso l’eterosessualità, anche se in verità era un’eterosessualità contorta).
Proprio per questo i bambini con una Disforia di Genere sviluppatasi in tenera età, la maggior parte delle volte risolvono spontaneamente in adolescenza questo problema evolvendolo in eterosessualità o omosessualità. Creavo situazioni e giochi con i compagni dove li spingevo a spogliarsi e mi stupivo del fatto che loro lo facevano sempre, mentre io mai mi sarei spogliata davanti a loro. Evidentemente loro non avevano problemi d’identità e vivevano le loro parti genitali con naturalezza e senza eccessiva vergogna. Mentre io da una parte ero attratta in modo ossessivo da tutto quanto era genitale e dall’altra mi vergognavo tantissimo del mio sesso genetico femminile.
I problemi d’identità dei bambini piccoli sono fortemente legati al sesso genetico e partono da una presa di consapevolezza collegata ad un rifiuto di quella parte anatomica percepita come non amabile e apprezzabile per colpa delle dinamiche famigliari. Da quella presa di consapevolezza seguita subito dal rifiuto scaturisce la Disforia di Genere (DIG), dove il bambino inizia inconsciamente ma categoricamente ad identificarsi nell’altro genere, non perché non esiste differenza tra i generi, ma proprio perché cerca questa differenza al contrario. Desideravo tantissimo avere il pene al punto che me lo sentivo (effetto arto fantasma), per questo guardando un ragazzo che si masturba o toccandolo, percepivo il suo piacere su di me.
Il maschietto con una DIG cerca di spingere il pene all’interno di sè, non lo vuole, lo nega. Ho ricordi vivissimi di tutti i pensieri che avevo e le sensazioni che provavo fin da piccolissima, dovuti proprio al fatto che, essendo la mia una crescita sofferta e anomala, continuamente mi obbligavo a pormi domande e a scavare nei ricordi per cercare di dare un senso a ciò che facevo, che sentivo e che volevo essere, il tutto contrastando con forza ciò che vedevo con gli occhi essere invece realmente.
Mia madre sembrava contenta che avessi questa identità da maschio, si arrabbiava solo quando non volevo mettere i vestiti da femmina che lei stessa mi cuciva. Del resto anche lei mi ha sempre detto di non essere stata felice di essere femmina e che avrebbe voluto essere maschio per far felice suo padre, poiché erano in 3 sorelle. Anche mio padre sembrava contento di com’ero, mi difendeva sempre.
Ho sempre voluto gli stessi giocattoli di mio fratello: macchinine, soldatini, palloni e pistole, e i miei genitori me li hanno sempre comprati senza porsi problemi. La mamma in seguito ha iniziato a cucirmi solo pantaloncini bermuda per la bella stagione. Vestita in quel modo mi ricordava anche il mio maestro, incontrato dopo tanti anni. Oggi ci sono libri di persone che hanno cambiato orientamento sessuale che descrivono tutto, come fossero la fotocopia della nostra vita, mia e di mio figlio. Ho capito i problemi di mio figlio; ogni riga che leggevo confermava tutto quello che avevo osservato svilupparsi in lui nelle varie fasi della crescita e tutto quello che avevo vissuto io stessa confrontati con l’ambiente famigliare.
Questa società riempie il mondo di menzogne e disinformazione al punto da voler condurre un ragazzo che si trova in queste situazioni a prendere un’unica direzione sofferta e forzata…Proprio come accadeva un tempo, ma in senso totalmente opposto. Mio figlio, al contrario di me, ha saputo subito dare un nome a ciò che sentiva, ma dietro quel nome esisteva solo la falsa idea di essere nato così.
Abbiamo parlato, litigato, l’ho messo davanti a tutta la verità sulla sua infanzia, ricordandogli ogni particolare. Le fidanzatine all’asilo e i primi anni di scuola, ricordi che sembrava aver rimosso. Gli ho ricordato tutta l’evoluzione del suo cambiamento negli anni, di come si è piegato sotto la sua sofferenza, con segni evidenti che però non ho saputo interpretare per mancanza di conoscenza. L’ho ferito profondamente e il suo dolore era il mio dolore, ma ho voluto andare avanti fino in fondo e infine gli ho chiesto il perdono a mio nome e a nome del papà. Non ho buttato le colpe sul padre, ma le ho divise tra noi, come giusto. E’ stato un momento veramente doloroso ma lo sentivo necessario in nome della verità.
Quella sera, in seguito alla discussione, si è chiuso in camera e non è più uscito fino al giorno dopo. Sebbene dicesse di non credere alla possibilità di cambiare, si è messo a leggere tantissimi libri sulle neuroscienze cognitive e le filosofie della mente, e tutto questo gli ha permesso di capire che il suo sé viene dalla mente; cambiando il modo di pensare, immaginare e sognare, cambia anche la realtà. Lui credeva in una forma radicale e totalizzante nelle cose che aveva letto, mentre io preferivo credere in Dio, proprio per questo un po’ lo prendevo in giro.
Comunque ha iniziato veramente a cambiare modo di vivere, di relazionarsi con le persone e dopo circa un anno (e dopo aver ricevuto una forte delusione da parte di una ragazza che l’ha fatto sentire ferito e umiliato), forse proprio pensando di non avere più nulla da perdere, ha trovato il coraggio di fare quel balzo che ancora lo frenava verso un cambiamento definitivo. Quello che sosteneva impossibile per se stesso, cioè l’avere rapporti con una ragazza, si è in seguito avverato e ne è stato felicissimo. Passava i giorni e le notti con lei e quando tornava a casa sembrava ogni giorno un po’ più cresciuto. Per me è stato un avvenimento di gioia, ovvero la gravidanza e l’arrivo di mio figlio, a dare il tocco finale al mio personale cambiamento, mentre per mio figlio è stata una forte delusione che lo ha portato a reagire positivamente.
Per altri può essere un incontro casuale con una persona dell’altro sesso e per altri ancora l’incontro con la fede. Non c’è un’unica strada che porta al cambiamento, come non c’è un’unica strada che porta all’omosessualità, sicuramente però la possibilità di cambiare esiste per tutti, ma tutto dipende anche da come una persona vive psicologicamente quell’avvenimento, con quanto entusiasmo, coerenza, coraggio e determinazione.
Né io né mio figlio ci siamo sottoposti a “terapie riparative”, però la psiche e le informazioni hanno avuto un ruolo fondamentale nel cambiamento. Questo tipo di terapie non sono altro che informazioni che lavorano sulla psiche togliendo vecchie credenze sbagliate e mettendo nuove conoscenze che in seguito permettono alla persona di vedere la realtà sotto un’altra luce. Sono tutti dei cammini, dei processi di maturazione e conoscenza che possono continuare anche per anni, fin quando capita l’evento che dà la svolta definitiva. Solo quando si arriva a vedere le cose diversamente si può cambiare, ma per vederle diversamente bisogna conoscere molte verità di tante realtà che ci riguardano. Un tempo erano nascoste dall’ignoranza e dalla mancanza di conoscenza e oggi, purtroppo, a nasconderle è l’ideologia LGBT.
Fin quando una persona crede di essere se stesso “gay” e di essere nato in questo modo con una sorta di marchio geneticamente sigillato, non potrà mai cambiare. Credo fortemente che l’aiuto dei genitori possa essere di grande importanza in queste dinamiche. Non nell’obbligare il ragazzo a prendere una decisione voluta dalla famiglia, ma scavando negli errori in modo da poterli correggere, dando delle risposte e delle spiegazioni ai figli e chiedendo loro anche il perdono se necessario. In quanto donna di fede, credo anche fortemente che le preghiere dei genitori vengano sempre ascoltate.
Oggi posso tranquillamente confermare che a mio figlio piacciono le ragazze, è felice e libero da droghe (non fuma nemmeno più le sigarette). Per quel che concerne la mia storia, sono stata una persona con problemi di identità così marcati dentro di me, da impedirmi di avere le mestruazioni fino a 18 anni, dopo che un medico me le ha provocate con delle pastiglie. Questo per dimostrare quanto la nostra mente possa influenzare anche il corpo. A 10 anni ho anche finto di essere maschio ed ho fatto la corte a delle bambine più piccole, spinta unicamente dal bisogno così forte di sentirmi maschio.
Ricordo ancora che credevo d’essere l’unica al mondo ad aver provato quel tipo di esperienza psicologica, sulla quale mi ero posta molte domande trovando l’unica risposta in quel mio fortissimo bisogno identitario falsato. Per fortuna che a quell’età non sapevo esistessero persone che si definiscono lesbiche o transgender altrimenti avrei creduto anch’io di essere nata con quell’identità e non avrei potuto vivere la gioia di essere madre e nemmeno la gioia di dare un padre a mio figlio. Questo solo grazie alla mentalità, oggi ritenuta dai più, ottusa e arcaica, della società in cui sono cresciuta.
Purtroppo oggi come allora, manca l’aiuto e la corretta informazione che possa dare ad un giovane la possibilità di capirsi. Un tempo non sapevi nemmeno di avere un problema, ti facevi tante domande che restavano senza risposta, pensavo d’essere nata nel corpo sbagliato …. Oggi non ti poni più nemmeno domande, perché ti hanno già inculcato un’unica risposta: – “Sei gay o transgender” – Peccato che sia la risposta sbagliata.