18/09/2016

Chi è persona? E persona si è, o si diventa?

Quando si parla di “persona”, cosa s’intende? Questo termine spesso non ha più un significato univoco, e questo genera conseguenze assai importanti nella vita di ognuno.

Iniziamo citando Philip K. Dick, autore che non ha bisogno di particolari presentazioni. Chi non conosce l’indimenticabile scrittore di fantascienza che ispirato, con le sue trame perfette, capolavori cinematografici come come Blade Runner di Ridley Scott?

Di Dick è tuttavia meno noto è un racconto del 1974, dal titolo The Pre-Persons (“Le pre-persone”), nel quale lo scrittore disegna un mondo in cui la misura dell’umano è stabilita dallo Stato, arrivato a estendere a dodici anni il limite legale per gli aborti post partum. In questa società surreale lo status di “persona” viene assegnato a chi dimostra la capacità di risolvere problemi di matematica superiore, di tipo algebrico. I bambini indesiderati e quelli che non rientrano nei ristretti parametri della cognizione logico-matematica sono rubricati come “pre-persone” e vengono avviati alle cliniche degli aborti.

Il racconto di Dick porta alle estreme conseguenze quest’idea: che essere persona è una condizione raggiungibile nel momento e nella misura in cui si è in grado di eseguire alcune operazioni qualificate. La persona in questa maniera è ridotta a una funzione e l’efficienza viene elevata a misura di tutte le cose. Non essere in grado o perdere la capacità di assolvere certe funzioni fa decadere dallo status di persona.

Dick aveva capito che la cultura di morte, che già negli anni ’70 cominciava ad assumere la forma di un sistema codificato in leggi, non può che essere ispirata dalla logica dell’antipersona.

È una solidarietà maligna, questa, rinvenibile all’infuori della finzione narrativa. Prendiamo ad esempio il filosofo Derek Parfit, che nel suo celebre Reasons and Persons (1984) definisce la persona come una serie di «io» successivi e di stati psichici successivi. La qualifica di «persona», secondo questa concezione, si conquista per gradi e come si conquista si può anche perdere. Il diritto alla vita parte da un ipotetico «grado zero» della condizione fetale e progredisce fino a un massimo nell’esistenza post-natale fino alla piena maturità, da qui inizia poi a declinare coll’avanzare dell’invecchiamento e del degrado psicologico.

Parfit stesso suggerisce di estendere il gradualismo anche al diritto alla vita: «L’ovulo fecondato non è un essere umano e una persona fin dall’inizio, ma lo diventa lentamente. Analogamente, la distruzione di questo organismo all’inizio non è moralmente sbagliata, ma poco a poco lo diventa. Mentre all’inizio non è per nulla moralmente sbagliata, in seguito diventa una mancanza non grave che può essere giustificata solo se, tenuto conto di tutto, la futura nascita del bambino fosse un’eventualità seriamente peggiore o per i suoi genitori o per gli altri. Quando l’organismo diventa un essere umano a pieno titolo, ossia una persona, la mancanza non grave si trasforma in un atto molto sbagliato» (1).

Sulla stessa falsariga, una persona gravemente menomata e priva di coscienza (pensiamo a Eluana Englaro) non è più la stessa persona di prima e viene degradata a semplice «essere umano» (Dick direbbe «pre-persona»). Nulla impedisce pertanto la sua eliminazione. Leggiamo ancora Parfit: «Ebbene, noi possiamo plausibilmente affermare che, se la persona ha cessato di esistere, noi non abbiamo alcuna ragione morale né di aiutare il suo cuore a continuare a battere né di astenerci dall’impedirgli di battere. [...] Se sappiamo che un essere umano è in coma irreversibile — ossia che certamente non riprenderà mai più coscienza —, per noi ciò significherà che la persona ha cessato di esistere. Dal momento che continua a esistere un corpo umano vivente, ciò che esiste ancora è un essere umano. Dovremmo dire che, alla fine della vita è moralmente sbagliato solo uccidere delle persone» (2).

Un «corpo umano vivente» ha perso lo status di «persona», dunque può essere ucciso. La persona, secondo questo contorto argomentare, è assimilata a un processo, a una quantità astratta, irreale. L’equivoco micidiale qui sta nella confusiome tra persona e personalità.

Si diventa persona non in virtù di un processo, ma in forza di un evento o di un atto immediato come il concepimento. La persona è un fatto reale, non è astrazione né prodotto di fantasia. La persona c’è o non c’è. È piuttosto la personalità ad essere acquisita in maniera processuale, attraverso l’agire umano e l’esperienza; è la psicologia individuale a evolversi, non la persona (3).

La confusione tra persona (qualità) e personalità (quantità) e la separazione tra essere umano e persona consegna la vita umana, soprattutto quella più debole e inerme, nella mani dell’arbitrio dei forti. Il declino della persona coincide sempre con l’ascesa del potere più brutale e tirannico.

Andreas Hofer

(1) Derek Parfit, Ragione e ragioni, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 410-411.

(2) Ivi, p. 411.

(3) Cfr. Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013, p. 210.

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