15/12/2022 di Luca Marcolivio

Carriera alias. Contri: «Studenti non ne sono così convinti come vogliono far credere»

I modelli antropologici gender fluid sono pompati da anni dall’industria dei media. Oggi anche la scuola ci mette del suo, proponendo da un lato i corsi ispirati all’ideologia gender, dall’altro la carriera alias. Molti giovani percepiscono tutto questo come un discorso di libertà ma è la natura stessa a far pagare lo scotto di una libertà senza limiti. Pro Vita & Famiglia ne ha parlato con Alberto Contri, una vita dedicata alla pubblicità e alla comunicazione, esperto di media, docente di Comunicazioni Sociali allo IULM di Milano, già presidente della Fondazione Pubblicità Progresso ed ex membro del CdA della Rai.

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Professor Contri, sta seguendo il dibattito sulla carriera alias? Qual è la sua opinione in merito?

«La mia opinione è quella di sempre. Mi sembra che sia in atto una pressione da parte di determinati “centri di pensiero” per indirizzare verso la fluidità sessuale. La vedo come una sostanziale violazione dei principi naturali. Ovviamente, questo non c’entra nulla con il rispetto delle scelte sessuali. Dai trattati di medicina a livello mondiale, vediamo quanti guai ha provocato questa spinta verso il cambio di sesso (rispetto al quale, una volta fatto questo passo, è molto difficile tornare indietro) ai danni di coloro che si sono pentiti».

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Lei è docente universitario: alla luce della sua conoscenza del mondo giovanile e studentesco, ritiene che esista una richiesta “dal basso” di questa misura?

«È un tema di cui parlo spesso. Sono professore a contratto, ho avuto studenti di circa 21 anni, da poco non ho più il corso annuale ma partecipo a dei master dove trovo laureati sui 27 anni. Devo dire che, sia negli uni che negli altri, rispetto alla fluidità sessuale, riscontro un atteggiamento del tutto agnostico, del tipo: “Si può provare, che problema c’è…”. Non li vedo così convinti. L’hanno recepito come un discorso di libertà, per cui ognuno può fare quello che vuole. In natura, però, non è vero che ciascuno può fare quello che vuole. C’è questa moda “unisex” così diffusa, penso ai Måneskin che piacciono tanto alle nuove generazioni (nonostante siano la copia della copia di musica che andava negli anni ’80-’90), solo perché si travestono in maniera “eroticamente diversa”. Quindi è più che altro una sovrastruttura mentale, favorita, però, in questo, da una sciagurata direzione artistica della Rai, dove c’è un dirigente dell’intrattenimento che ha queste preferenze personali che, di fatto, impone a tutti. Basti vedere quanti sono gli omosessuali (verso i quali non ho nessun giudizio morale) che impongono la propria visione del mondo a tutte le ore, in tutti i programmi, da Ballando con le stelle fino alle trasmissioni del pomeriggio. A breve, avremo addirittura un programma dove degli uomini travestiti da donne vengono giudicati da delle drag queen: tutte cose che un tempo si vedevano solo nei cinema di serie Z. È qualcosa di impressionante…».

Ha appena parlato dei programmi italiani che più influenzano le scelte gender fluid delle nuove generazioni. Quali sono, invece, a suo avviso, i prodotti più determinanti in questo senso, a livello internazionale?

«Nell’intrattenimento, c’è un trend innegabile. Nel mio saggio La sindrome del criceto pubblicato due anni fa, spiego come le grandi industrie dell’intrattenimento come Netflix, Sky o Disney, stimolino contenuti di questo tipo, perché sono straconvinte si tratti un fattore di libertà. Le grandi multinazionali promuovono corsi di gender per i figli dei dipendenti e li considerano attività di responsabilità sociale. Ci sono persino volontari che si fanno fotografare con la maglietta arcobaleno. Dopodiché, vediamo che la Disney, che un tempo promuoveva la famiglia tradizionale, adesso propone sempre più spesso personaggi omosessuali di qualunque tipo. A monte, c’è un diktat internazionale partito ormai parecchi anni fa. Pochi sanno che negli anni ’50 il vicepresidente della Parenthood Foundation americana, che era un consulente dell’ONU, aveva fatto approvare una risoluzione che argomentava così: dal momento in cui bisogna ridurre la popolazione mondiale, uno dei tanti modi è quello di promuovere insistentemente l’omosessualità. Ci sono riusciti benissimo…».

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Per concludere, se lei fosse il rettore della sua università e qualche collega avanzasse la possibilità di introdurre una carriera alias, lei che obiezioni solleverebbe?

«Semplicemente solleverei l’obiezione che questa procedura non rientra nell’ordine naturale delle cose. Verrei preso per un censore ma mi sembra che di rivoluzioni, in questo senso, ce ne sono state fin troppe».

Non è quindi solo una questione legale o di rispetto delle norme vigenti?

«Secondo me, dietro queste “innovazioni”, come quella di usare la schwa oppure di non terminare le parole, pur di non definirle al maschile o al femminile, c’è un determinato tentativo. In generale, però, tutto ciò porta all’annullamento dell’identità, perché l’identità sessuale, checché se ne dica, è un’identità biologica. Ciò non toglie che ci possano essere maschi attratti da maschi e femmine attratte da femmine. Alla fine, se ci lamentiamo che in Italia è in atto una grave crisi di denatalità, la prima domanda da farsi, a questo punto, è: i bambini chi li fa? È innegabile che i bambini nascono da un maschio e da una femmina. È vero che esistono le tecniche di fecondazione artificiale ma questi metodi portano a totali aberrazioni come l’utero in affitto nei confronti della povera donna ucraina o indiana che viene affittata per portare avanti una gravidanza. Si tirano sempre fuori dei casi sporadici con l’intenzione di farne una norma. Anni fa mi hanno messo in croce per aver detto questo. I figli nascono da un uomo e da una donna, poi possono esserci altri tipi di fecondazione, ma la normalità è un’altra cosa».

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