Un tentativo di strumentalizzare un caso estremo per cambiare le leggi sull’aborto di una Nazione si è questa settimana inaspettatamente ritorto contro gli esperti di “diritti umani” delle Nazioni Unite e i fautori dell’aborto. Una tesa situazione di stallo politico e legale si è conclusa con una madre in via di guarigione, una bimba la cui breve vita si è conclusa per cause naturali e un’accolita di attivisti frustrati che si affannano per contenere i danni alla loro immagine.
Il caso di Beatriz (nome di fantasia), una donna salvadoregna di 22 anni, si è trasformato in una cause célèbre internazionale, fomentata da attivisti – compresi funzionari delle Nazioni Unite – che hanno politicizzato la sua situazione per fare pressioni su El Salvador affinché legalizzasse l’aborto. La tattica di usare una rappresentazione deformata dei fatti (diciamo: le menzogne) per provocare indignazione internazionale su uno specifico “caso estremo” è un qualcosa di già visto, e riecheggia storie precedenti provenienti dall’Irlanda, dalla Repubblica Dominicana, dalla Polonia e non solo.
Beatriz, incinta, soffre di lupus eritematoso, un morbo autoimmune, e al feto era stata diagnosticata anencefalia, ovvero la mancata formazione di una parte del cervello e della calotta cranica. Al di fuori dell’utero materno, i bambini anencefalici raramente sopravvivono a lungo.
I gruppi femministi hanno fatto circolare petizioni per fare pressioni su El Salvador, affinché permettesse un aborto “salvavita” per Beatriz; similmente ha fatto un comitato dal significativo nome “Citizen’s Group for the decriminalization of Therapeutic, Ethical, and Eugenic Abortion”. Gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno esortato El Salvador a lanciare una discussione nazionale sulle eccezioni ai divieti di aborto, ”specialmente in casi di aborto terapeutico e di gravidanze risultanti da stupro o incesto”. Amnesty International ha pubblicato manifesti con slogan come “Beatriz: il suo corpo, i suoi diritti, la sua vita”. La Corte Internazionale dei Diritti Umani ha ordinato a El Salvador di consentire qualsiasi misura utile a salvare la vita di Beatriz.
Il 30 maggio, la Corte Suprema di El Salvador si è però pronunciata contro l’aborto per Beatriz, in ciò avvalendosi del parere dei medici curanti e del locale Istituto di Medicina Legale (ILM), secondo cui non era necessario. Molte fonti, soprattutto in lingua spagnola, dipinsero nei giorni successivi la vicenda giudiziaria come un ingiusto sopruso patito da una donna in pericolo di vita, il che era palesemente falso.
Per Beatriz si è infine proceduto con un taglio cesareo di emergenza, puntualizzando come questo non fosse un aborto, ma piuttosto la nascita pilotata del bambino alla 27a settimana – tanto si era infatti prolungata la gravidanza, senza significative complicazioni per la salute della madre [i sintomi del lupus, in gravidanza, possono aggravarsi oppure al contrario scomparire completamente, n.d.t.].
La figlia di Beatriz, nata il 3 giugno, è sopravvissuta per cinque ore dopo la nascita.
Non appena Beatriz si è ripresa dall’intervento chirurgico, i gruppi pro-aborto hanno sostenuto che la procedura da lei subita era stata di fatto un aborto, e che dunque l’azione di lobbying aveva ottenuto successo. Altri invece lamentavano come la “macchina propagandista anti-choice” avesse influenzato il New York Times e altri media usando termini come “nascita” e “bambino” anziché “aborto” e “feto”. Addirittura alcuni gruppi radicali pro-aborto si sono dati appuntamento, una settimana dopo la nascita della bambina, a Washington D.C. per una “vigilia di preghiera” decisamente blasfema, per l’aborto “sicuro, legale e gratuito”. I promotori dell’aborto, insomma, continuano a sventolare il nome e la storia di questa povera ragazza per sostenere la loro agenda; ma se veramente stesse loro a cuore la salute delle donne, si preoccuperebbero ad esempio dei rischi per la salute che la contraccezione, da loro fortemente promossa, comporta – si pensi che, dal 2007 ad oggi, in Canada la pillola Yasmin (Bayer) ha con ogni probabilità procurato la morte, per embolia da trombo, di 23 giovani donne (una appena quattordicenne), e si tratta solo della punta dell’iceberg.
Sull’opposto versante, l’associazione giovanile Vida Sì, suffragata dall’autorevole opinione di José Miguel Fortin, dell’ILM, dichiarava che la madre non avesse mai avuto bisogno di abortire, sia perché la sua malattia era restata in fase di quiescenza per tutta la durata della gravidanza, non ponendola dunque mai in immediato pericolo, sia perché intraprendere un’interruzione di gravidanza su una paziente affetta da lupus presenta molti rischi aggiuntivi.
Non è questa la prima volta in cui i gruppi che fanno campagna per rovesciare le leggi a favore della vita danno una falsa rappresentazione della storia di una donna per spingere verso la liberalizzazione dell’aborto. Nel 2006, il New York Times sostenne che la condanna di una donna a 30 anni di carcere in El Salvador fosse stata inflitta per un aborto, nonostante gli atti giudiziari parlassero di strangolamento di un neonato; anche altri fonti presentarono le salvadoregne incarcerate per infanticidio come vittime della legge nazionale che vieta l’aborto. Emerse poi che il reporter del NYT aveva collaborato con un traduttore associato al gruppo di pressione pro-aborto Ipas. Successivamente l’Ipas tolse i riferimenti al caso della donna dai suoi materiali di propaganda per la raccolta di fondi.
L’Ipas ha anche rimosso dal suo sito web la storia di una bambina di 9 anni del Nicaragua rimasta incinta in seguito a uno stupro. Ipas e altri gruppi pro-aborto hanno condotto una strenua campagna di pubblicità per ottenere che abortisse. Un documentario promosso da Ipas presentava i genitori come eroi. Più tardi, non solo è emerso che il patrigno era stato colui che l’aveva stuprata, ma che lo stesso individuo aveva nuovamente messo incinta la poverina quando lei aveva 13 anni. È stato infine condannato a 30 anni di carcere, tra concreti sospetti che i gruppi femministi che lo avevano sostenuto fossero al corrente dei suoi crimini e avessero contribuito a occultarli.
Al di là della politica dei “casi estremi”, si tratta di vedere se l’aborto possa essere mai considerato veramente “necessario” da un punto di vista medico. Anche in casi difficili come quello di Beatriz, “l’aborto non è la risposta, e neppure è necessario”, scrive il Dott. Hans Geisler in una lettera all’Indianapolis Star. “L’iperbole, praticata dalla lobby pro-choice, non è la risposta. Viceversa, un approccio profondo e completo di cura medica, lo è”.
Traduzione e adattamento a cura di Massimo Scaglione
Fonti:
Fonte: LifeSiteNews