13/02/2024 di Fabio Piemonte

Anche Susanna Tamaro contro la transizione di genere dei bambini: «Crimine ideologico»

«Sono fermamente convinta che la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti ai bambini e ai ragazzi come un crimine, un crimine ideologico». Nel dibattito attuale sulla transizione di genere – soprattutto alla luce di quello che sta accadendo in Italia con il caso dell’Ospedale Careggi di Firenze - tali parole assumono una forza dirompente, tanto più se a scriverle è Susanna Tamaro, che ha sperimentato sulla propria pelle cosa comporti la ‘disforia di genere’.

In un recente articolo per il Corriere della Sera la celebre autrice di “Va’ dove ti porta il cuore” si racconta così: «Ero scesa in terra nel corpo sbagliato. Data l’epoca, non ho mai confessato a nessuno questa mia devastante certezza ma passavo le notti piangendo se mi veniva regalata una bambola o peggio ancora un qualche vestito da bambina. Verso gli otto, nove anni la sofferenza è diventata incontenibile, avevo sentito dire che a Casablanca si poteva cambiare sesso e quella città improvvisamente si era ammantata per me di una luce magica. Mia nonna, intuiti i miei tormenti, a un Carnevale mi ha comprato un costume da ufficiale, divisa che non mi sono più tolta fino a che le ginocchia non si sono bucate. Poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano essere estremamente interessanti. Potenza e meraviglia degli ormoni! Sarebbero stati anche loro interessati a me? Davanti alla prorompente femminilità delle mie compagne, tentennavo incerta. Un giorno in cui volli indossare una gonna per cercare di raggiungere il loro livello, lo ricordo come uno dei più spaventosi della mia vita. Ma poi pensai che forse era meglio restare com’ero, con jeans e maglietta, perché se qualcuno si fosse innamorato di me sarebbe stato colpito più dal mio interno che dalla mia carrozzeria. E così è stato. Le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba».

A questo punto la scrittrice si chiede «cosa ne sarebbe stato di me se, a sette, otto, nove anni, fossi stata presa sotto l’ala protettiva dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini e, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato, avrebbero saputo come risolvere i miei problemi e io avrei baciato con riconoscenza le mani di quegli angeli che promettevano di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore. Psicologi, pillole, ormoni e poi il grande salto di diventare ciò che avevo sempre sognato: un maschio».

Al di là di venderle la menzogna di poter essere quanto non sarebbe in realtà mai diventata, gli ideologi della fluidità di genere non l’avrebbero di fatto «trasformata in un maschio, ma in un essere bisognoso di cure a vita, perché la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri e, per contrastarla, a parte le conseguenze degli interventi chirurgici, avrei dovuto ingurgitare ormoni fino alla fine dei miei giorni perché tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina!».

La Tamaro, che pure afferma di non aver nulla in contrario rispetto alla ‘transizione di genere’ in età adulta, denuncia con fermezza il «folle apparato che è stato messo in moto in questi anni per devastare le vite di bambini e di adolescenti, nel silenzio di una società sempre più pavida e confusa, capace solo di affidarsi agli esperti e ad una scienza che tutto ha a cuore, tranne il bene della persona. Come si può pensare di bloccare con la triptorelina lo sviluppo di un bambino nell’attesa che decida cosa voglia essere? La vita non è fatta di foto polaroid. E da quando in qua i bambini hanno la consapevolezza e la capacità di determinare da soli il loro futuro? A dieci, dodici, tredici anni, senza alcuna esperienza di cosa sia la vita del corpo, come ci si può avviare a una trasformazione dalla quale non è possibile tornare indietro?».

Di qui la celebre scrittrice evidenzia l’assurdità di una pretesa ideologica di ingabbiare la realtà entro le sue maglie, laddove la realtà è sempre più complessa degli stessi stereotipi nei quali la si voglia a tutti i costi inquadrare: «Una femmina che non ama essere frou frou, che non civetta, che ha interessi altri rispetto alla seduzione, viene subito inquadrata come qualcuno che sta a disagio nel suo ruolo; e se qualche infelicità ha, magari di altro genere — famiglie sfasciate, anaffettività, abbandoni educativi — verrà subito caricata di un solo punto. L’identità sessuale. O meglio genitale. La stessa cosa vale per i maschi. Un maschio che ami giochi quieti, riflessivi, che preferisca passare il suo tempo con le bambine invece che buttarsi in risse selvagge verrà subito spinto a pensare che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui si potrebbe porre rimedio».

Il rischio più grave individuato dalla Tamaro consiste proprio in una simile assolutizzazione dell’indennità sessuale, degradata a mera genitalità. Al contrario i bambini sono stati liberi di sperimentare, tra le penombre dei cespugli o dei cortili, lontano dagli sguardi degli adulti, l’identità e la potenzialità dei loro corpi, sperimentazioni protette dal sacrosanto velo del pudore e capaci di fingere una continua fluidità: “Facciamo che io ero… facciamo che tu eri…”. I ruoli dell’infanzia sono da sempre meravigliosamente intercambiabili. La ricchezza della persona discende proprio da questo continuo dialogo esplorativo, spesso ambivalente. Ci si forma ricercando, indagando, accettando e rifiutando. Ma quando questi movimenti naturali della crescita vengono militarmente guidati in una prospettiva rigidamente ideologica — il cui fine è incasellare e incatenare qualsiasi realtà dell’uomo alla sua genitalità — ci troviamo di fronte a un’umanità spinta nell’angustie di un vicolo cieco».

Per arginare tale deriva occorrere allora ricominciare a guardare in faccia la realtà come «qualsiasi persona di buon senso», per constatare «che la disforia di genere nell’infanzia è sintomo di qualche altro profondo disagio, primo tra tutti, forse, quello di vivere in un mondo che ti ripete continuamente che la vita non ha senso, che noi siamo soltanto figli del nulla e del caso e che non esiste alcuna realtà al di là di quella forgiata dai nostri desideri».

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