18/03/2018

Alfie: parla il dott. Picardo, del Bambin Gesù

La vita del piccolo Alfie Evans, ricoverato per via di una malattia rara presso l’Alder Hay Children Hospital di Liverpool, è ancora appesa a un filo. Le speranze che i giudici inglesi possano retrocedere nel loro intento di trasformarsi in boia e rispettino la volontà dei genitori di tenerlo in vita sono molto deboli, ma non bisogna demordere.

Alfie Evans, forse ancora più di Charlie Gard la scorsa estate, è un bambino che risponde agli stimoli, come dimostrano i diversi video che suo padre ha pubblicato su Facebook e che sono anche stati forniti come prova al giudice, facendolo tentennare nelle sue convinzioni.

Attendiamo dunque gli sviluppi, ma intanto vi proponiamo ampi stralci di un’intervista realizzata da Graziella Melina per Avvenire al rianimatore dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, dott. Sergio Picardo. Il medico, responsabile di Anestesia, rianimazione e Comparto operatorio, conosce bene il caso di Alfie.

Alfie deve vivere: «Non staccare mai i supporti vitali ai bambini»

Qual è di prassi l’approccio per le malattie gravi?

Di norma si effettuano le manovre diagnostico-terapeutiche al fine di arrivare a una diagnosi, alla terapia e a una prognosi. In ogni caso la terapia dovrebbe essere proporzionale al grado di malattia.

Quando si decide che è il momento di fermarsi con le cure?

I limiti della medicina si sono spostati molto in avanti. Noi possiamo utilizzare terapie avanzate nei casi in cui ovviamente queste terapie siano utili. Anche la terapia più evoluta deve essere sempre commisurata alle condizioni del paziente e alla sua prognosi. Nel caso, per esempio, di un tumore al polmone se la chemioterapia si è rivelata inefficace e inutile la si sospende, sempre ovviamente coinvolgendo e accompagnando la famiglia in questa decisione.

A proposito di sofferenza, è possibile capire se i bambini sentono dolore?

Esistono metodi clinici e scale che vengono applicate costantemente a seconda dell’età e delle patologie e che determinano il livello di sofferenza. Li utilizziamo per i neonati, per i bambini più grandi che non si possono esprimere, per i pazienti con lesioni cerebrali. E così valutiamo il livello di dolore.

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In genere, quando si decide di interrompere un supporto vitale?

Noi non possiamo procurare la morte, quindi nel momento in cui c’è un supporto vitale non lo interrompiamo, se serve appunto a mantenere in vita il paziente, perché altrimenti in quel modo si procura la morte.

Anche se la malattia è terminale?

Certo. Il medico non è padrone della vita e della morte. Non è il medico che sceglie il momento in cui l’essere umano muore. Se il paziente è terminale, si accompagna lui e la famiglia sostanzialmente per tutto il decorso della malattia ma non si applica alcuna manovra per abbreviarne i tempi.

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Ma come si stabilisce se si tratta di accanimento?

Il criterio di riferimento è sempre la patologia. È la letteratura scientifica che ci dice se la malattia è curabile, e con quali mezzi. In caso di impossibilità a contrastare la patologia ci si occupa degli altri aspetti del malato, della sua sofferenza, e si somministrano le cure palliative. Ovviamente il confine è molto sottile, ogni caso è a parte. Proprio per questo da noi esiste un Comitato etico e una Commissione: se si ha un dubbio ci possiamo rivolgere a loro per un consulto.

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Cosa si intende per “miglior interesse del bambino”?

Innanzitutto deve essere fondamentale un approccio rigoroso, scientifico e moralmente aperto. È nell’interesse del paziente salvaguardare la sua dignità, la sua integrità, il suo dolore. Se non ci sono cure per la malattia, oppure se sono inutili, compito del medico è fare in modo che essa venga vissuta nella maniera più dignitosa possibile, senza affrettare il decorso. Proprio per questo occorre commisurare giorno per giorno le condizioni del paziente: una cura che poteva essere giustificata dieci giorni prima se le condizioni cliniche cambiano può essere interrotta. Ma il supporto delle cure vitali resta.

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Redazione

Fonte: Avvenire


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