25/07/2016

Aborto, la legge 194 e la licenza d’uccidere

La legge 194 che nel ’78 ha legalizzato l’aborto concede una vera e propria licenza d’uccidere.

Nell’aprile 2014, sulla nostra rivista Notizie ProVita, appariva questo articolo a seguito di una delle tante sentenze che riconoscono un risarcimento di nascita alla madre di un figlio “imperfetto” alla quale non è stato prospettato l’aborto.

Una donna era stata risarcita con 400.000 euro perché il figlio è nato affetto da spina bifida.

C’è ancora, forse, chi crede che la legge 194 non abbia introdotto nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto di uccidere: ecco un’ennesima sentenza che toglie ogni dubbio.

Com’è noto, in Italia non è facile distinguere con chiarezza le fazioni contrapposte, nella battaglia sull’aborto. Vi sono molti, infatti, che si dichiarano pro-life, ma ritengono ineluttabile la libera scelta della donna e dunque la legge 194/1978. Abortisti e pseudo pro-life si trovano d’accordo, seppur con diverse sfumature, sul fatto che la 194 sia tutto sommato una buona legge, una legge da applicare integralmente anche e soprattutto nella sua (presunta) parte preventiva.

In particolare, si afferma che sulla base di quanto disposto dalla legge 194 la donna possa accedere all’aborto solamente qualora vengano accertate talune particolari condizioni e che quindi esso non costituisca un diritto bensì il tragico e inevitabile epilogo di situazioni limite o particolarmente gravi.

Nel corso degli anni, invece, la legge ha innescato una tragica e sanguinosa deriva abortista. La giurisprudenza, d’altronde, conferma costantemente che l’aborto è un vero e proprio diritto. Recentemente, ad esempio, un giudice ha condannato gli Ospedali Riuniti di Bergamo a risarcire con 400.000 euro una madre il cui figlio è nato affetto da spina bifida: non le è stato consentito di esercitare “il diritto” di interrompere la gravidanza perché vi fu «un’inadeguata visualizzazione fotografica degli organi del feto». Le tesi sostenute dalla difesa vertevano sul fatto che «quand’anche informata la donna non avrebbe verosimilmente optato per l’interruzione di gravidanza, sia perché la nascita del figlio era attesa e desiderata da tempo, sia perché ella aveva dichiarato di non sapere cosa avrebbe fatto ove fosse venuta a conoscenza della deformazione fetale».

Il giudice ha respinto le ragioni della difesa perché «non può richiedersi che per accedere all’opzione abortiva avrebbero dovuto sussistere tutte le ipotesi previste dalla legge 194 (come asserito dalla difesa), essendo invece sufficiente l’ipotesi del grave pericolo per la salute psichica della donna».

In effetti, la legge 194 all’articolo 4 richiede, per l’aborto, che la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica. L’intero articolo può essere senz’altro condensato in un’unica perentoria affermazione sulla base di cui la donna può chiedere l’aborto per qualsiasi motivo. Basta anche la semplice ipotesi di pericolo per la sua salute psichica, come correttamente argomentato, sulla base del dettato normativo, dal giudice che ha emesso la sentenza.

A nulla sono valse le tesi difensive degli Ospedali Riuniti di Bergamo, dal momento che sia il dettato sia lo spirito della legge 194 sanciscono il diritto assoluto di aborto e non, semplicemente, la possibilità per la donna di esercitare un’opzione a certune determinate condizioni. Tanto più che anche nel caso non sia riscontrabile con certezza la presenza di una malformazione nel feto (la percentuale di errore nelle diagnosi prenatali è molto alta) ciò che prevale non è l’interesse del bambino che deve nascere (“in dubiis abstine”), bensì quello della madre, ossia del fruitore del diritto di uccidere garantito dall’iniqua legge.

Pertanto, tale sentenza che ordina il risarcimento della “vittima” per il “danno” subito è certamente aberrante, ma perfettamente coerente con la legge 194, di cui evidenzia in pieno l’ipocrisia e la malvagità intrinseca.

Alfredo De Matteo

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