09/01/2024 di Matteo Delre

Wish, l’ennesimo flop della Disney. Woke e cancel culture non pagano

Ci risiamo. Ecco l’ennesimo flop al botteghino di un film Disney. Si tratta di “Wish”, realizzato in pompa magna nell’ottica del centenario della “The Walt Disney Company”, con un investimento di più di 200 milioni di dollari. Secondo i parametri dell’industria cinematografica americana, un film è di successo se incassa almeno due volte i costi di produzione. Ad oggi “Wish” ha incassato globalmente, cioè sommando gli introiti di tutti i Paesi in cui è uscito, la “miseria” di 180 milioni. Più che un flop, un vero e proprio disastro, una Caporetto, ma soprattutto un terremoto negli uffici che contano all’interno della famosa corporate del divertimento animato.

Hanno poco da festeggiare, infatti: dopo sei anni di predominio sul mercato, nella ricorrenza del centenario la Disney perde il primato, trascinata in basso da una sequela di flop (specie dal lato dei film con protagonisti supereroi: “The Marvels” – della Marvel, appunto - è stato un vero sprofondo) e superato dalla Universal di “Oppenheimer” e “Super Mario”. Non a caso i vertici Disney in questi giorni stanno finalmente tirando i remi in barca per quanto riguarda il politicamente corretto – o almeno così è stato detto - e hanno annunciato ora un ritorno «all’archetipo della favola». Ben tornati nel mondo reale.

 “Wish”, infatti, non si discosta dalle precedenti produzioni politically correct che negli ultimi anni hanno insozzato il catalogo della Disney, zavorrandone la capacità di espansione economica. Si sprecano su YouTube i recensori specializzati che non si fanno remore a definirlo nientemeno che «spazzatura woke riciclata». E il buon giorno si era visto già dal mattino, in realtà, quando il trailer pubblicato, sempre su YouTube, aveva totalizzato così tanti “pollici-in-giu” da costringere la Disney a un ipocrita oscuramento del dato (a novembre ammontavano comunque a 78.000, più dei “like” attuali…).

Inoltre pensiamo – a questo punto – sia oggettivamente arrivato il momento di andare un po’ più nel profondo del semplice ragionamento secondo cui è economicamente non profittevole trasformare in didattica progressista post-umana quello che dovrebbe essere un mero prodotto d’intrattenimento. Che sia così, oltre ai dati economici, lo dimostra l’etica, ossia le reazioni di fronte ai flop al botteghino. La Sirenetta di etnia nera, secondo il “The Guardian” (guardiano della cultura liberal anglosassone), era stata un insuccesso clamoroso a causa di una “reazione razzista” del pubblico. Quando la commedia romantico-gay “Bros” si è schiantata contro incassi ridicoli, il regista Nicholas Stoller non ha mancato di strillare che la colpa era degli eterosessuali («Solo i gay hanno visto il film», si è lamentato, riuscendo a rimanere serio).

Ora non ci stupirebbe di sentirci dire che “Wish” non piace perché la protagonista è di colore (ovviamente non è così) e che quindi la colpa di ogni insuccesso andrà ascritta sempre a quei troppi che persistono cocciutamente nel loro bigottismo. Anche, se non soprattutto, in questo penoso e sistematico scarico di responsabilità è contenuta l’ovvietà intrinseca del dogma “get woke, go broke”.

Pur essendo vero che il pubblico non ne può più di essere catechizzato (o meglio: oggetto di persuasione e indottrinamento) quando spende tempo e denaro in qualcosa che dovrebbe semplicemente intrattenerlo, c’è però qualcosa di ulteriore che via via sta emergendo nel complesso delle critiche che accompagnano i disastri come quelli della Disney. Gli spettatori si sono ormai accorti che, probabilmente per far passare meglio il rullo compressore della propaganda, le storie dei prodotti “woke” risultano ipersemplificate a un livello tale da produrre un insopportabile senso di frustrazione e che la mancanza di complessità è indubbiamente una caratteristica chiave dell’intrattenimento politicamente corretto.

Si tratta di un fenomeno notato anche nell’industria letteraria. Le case editrici si rivolgono ormai sistematicamente a lettori che sembrano essere allergici all’autentica complessità della vita. Lo testimonia la poetessa e autrice scozzese Kate Clanchy, il cui libro di memorie “Some Kids I Taught And What They Taught Me” (2019) rischiò di finire nel tritacarne del politicamente corretto. Si trattava di un testo profondo e sfaccettato, con tutti i difetti e le ombre della vita reale, stroncato però dalla sensibilità dei lettori-test “risvegliati” ai problemi sociali, che la casa editrice aveva ingaggiato per verificare la conformità del testo ai diktat delle minoranze. L’esito era stato una proposta di riscrittura che avrebbe reso il libro idoneo per bambini di tre anni. La Clanchy venne incoraggiata a eliminare dal testo i viaggi mentali che attraversavano i capitoli, le ambiguità nei paragrafi e le sfumature in certe frasi. Per far prima, stracciò il contratto con il suo editore e pubblicò con un concorrente il testo così com’era.

Questo accade già da tempo (anche in Italia, non solo nel mondo anglosassone) nell’editoria letteraria, ma anche nell’intrattenimento più semplice. L’attuale percorso della Disney, infatti, lo sta seguendo anche la popolarissima serie televisiva “I Simpson”.  Inizialmente Homer era un personaggio complesso, un disordinato insieme di contraddizioni fin troppo umane: un pessimo padre, sebbene sempre tenero coi figli, un mezzo alcolista che fa un lavoro che odia, un bambinone mai cresciuto, cocciuto eppure con un rapporto intenso con la figlia geniale. Ora non è più così: a partire dalla famosa scenetta di Homer che strozza Bart, già tagliata tempo fa, il famoso omone giallo è diventato un personaggio piatto, monotono, irreale, che non attira più l’audience.

Operazioni come quelle condotte sui Simpsons, sui libri e le poesie della Clanchy, e sul taglio tradizionale delle produzioni Disney, non si limitano però solo a impoverire storie e caratteri dei personaggi, rendendoli poco attrattivi e dunque causa di flop al botteghino. Grattando via ogni caratteristica negativa o eliminando ogni brutta azione dai loro personaggi, gli autori dicono implicitamente agli spettatori che sono troppo stupidi per riconoscere come negativa o brutta la caratteristica o l’azione rappresentata. Noi, pubblico, siamo stati trasformati da questi produttori di contenuti in insulsi ricevitori che trasmettono tutto ciò che gli viene proiettato addosso. Non guardiamo più gli schermi ma siamo schermi su cui costoro proiettano la loro discutibile, sicuramente minoritaria moralità.

Non è per questo che cerchiamo storie di fantasia. Lo facciamo perché siamo attirati dalla verità che si nasconde dietro la finzione, dalla natura umana che si cela al di sotto della sirena, della strega, del principe o dell’animale parlante dei cartoni animati. Questa riflessione dà il meglio di sé quando è disordinata, torbida e complicata come ciò che riflette. La realtà ha sempre dei difetti e la finzione che finge di non averne non è tanto un riflesso quanto una caricatura. Diciamolo allora: prodotti come quelli di Disney (e non solo) degli ultimi anni falliscono perché non raccontano storie vere e autentiche, che abbiano tutta la ricchezza della vita reale. E perché la loro natura caricaturale ci fa sentire trattati da stupidi. E no, non lo siamo.

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