26/08/2022 di Roberto Marchesini

Senza relazioni si muore

L’uomo, ha scritto Aristotele (384 o 383 a.C.-322 a.C.) è un animale sociale. Significa che il suo ambiente naturale è fatto di relazioni. È vero che, ai nostri tempi, lo stagirita non gode di buona stampa; tuttavia, credo che avesse ragione.

Una conferma ce la dà una cronaca medievale, quella di fra Salimbene da Parma (1221-1288), cronista dell’ordine dei francescani. Il suo lavoro è un'importante fonte di informazioni su quegli anni e sui loro protagonisti. Ad esempio, su Federico II di Svevia (1194-1250), lo stupor mundi. Volendo egli conoscere - così narra la cronaca - quale fosse la lingua originaria dell’uomo, prima che intervenga chiunque ad insegnarne un’altra, prese dei neonati e li rinchiuse in un’alta torre. Poi ordinò a delle balie di nutrire e pulire quotidianamente quei bambini; senza, tuttavia, parlare, cantare o avere nei loro confronti alcun gesto di affetto. Fra Salimbene ci dice che quei bambini (accuditi per quanto riguarda i bisogni biologici) morirono tutti.

Come si può, direte voi, credere ad una cronaca medievale? Ha la stessa attendibilità di un bestiario illustrato… Bene, allora prendiamo in considerazione il lavoro del dottor Luther Emmett Holt (1855-1924), fondatore e presidente (per due volte) dell’American Pediatric Association, medico di chiara fama e inventore della cartella clinica. Incidentalmente era anche un eugenetista e lavorò per la Rockefeller Foundation, ma non è questo il punto. Il punto è che, in un suo libro del 1894, teorizzò come buona prassi l’evitare qualunque gesto di affetto nei confronti dei bambini. Bene. Qualcuno ha notato che, nei primi anni del Novecento, la mortalità infantile in alcuni orfanotrofi statunitensi si impennò bruscamente. Sì, a quei tempi la mortalità infantile era alta; ma in quegli anni, in alcuni orfanotrofi, rasentava il 100% prima del compimento del primo anno d’età! Eppure, quegli orfanotrofi erano puliti, riscaldati, i bambini nutriti… Indovinate? Esatto: erano proprio gli orfanotrofi della East Coast, più ricchi e avanzati, quelli che avevano adottato le indicazioni del dottor Holt, ad avere quella mortalità assoluta. 

Così, tra i grandi luminari della pediatria, cominciò a farsi strada l’ipotesi che i bambini avessero bisogno di contatto fisico, di socialità, in una parola: di amore. Lo psicologo Harry Harlow (1905-1981) ideò un esperimento; piuttosto crudele, per la verità. Sottrasse alle loro madri delle piccole scimmiette di Rhesus, appena nate. Tutti i cuccioli svilupparono comportamenti autistici. Allora decise di fornire a queste povere bestie una madre surrogata, anzi: due. Una era un pupazzo con un biberon, in grado quindi di fornire cibo; l’altra era coperta di un morbido panno. Le scimmiette passavano il tempo aggrappati alla “madre” morbida; si recavano da quella in grado di allattare solo il tempo necessario per nutrirsi.

Quindi, a quanto pare, aveva ragione Aristotele; a maggior ragione se si parla di bambini.

Una spiegazione di questo fenomeno ce lo fornisce lo psicoanalista Jacques Lacan (1901-1981). Nel 1936, Lacan teorizzò la celebre «fase dello specchio». Consiste in quella fase della vita del bambino nella quale egli, guardandosi allo specchio, si riconosce e giubila. Secondo Lacan, la gioia del bambino è dovuta al riconoscersi come un insieme strutturato e dotato di senso; in altri termini, una persona. Il pediatra Donald Winicott (1896-1971) approfondì questo concetto sovrapponendo lo specchio alla figura materna: è attraverso lo sguardo della madre che il bambino si percepisce non come un caos, ma come un essere umano degno di accudimento e di amore.

 

Nel mio piccolo, anche io posso confermare l’importanza dell’accudimento primario nella crescita del bambino. Durante gli anni di lavoro presso i servizi sociali ho avuto la fortuna (professionale) e sfortuna (personale) di incontrare dei bambini ai quali non erano state fornite adeguate cura parentali durante i primi mesi di vita. Bene, la sensazione che avevo al cospetto di questi bambini era la stessa descritta da Bruno Bettelheim (1903-1990) nel suo libro dedicato all’autismo e intitolato La fortezza vuota. Cioè la sensazione di trovarsi davanti a un essere umano al quale manca un “io”, un centro. Forse è il bambino - caos precedente la fase dello specchio di Lacan.

Insomma, tutta questa pappardella per dire una cosa che dovrebbe essere chiara come il sole di luglio: i bambini hanno bisogno di contatto, di carezze, di coccole. Hanno bisogno di vicinanza sociale, mentre noi stiamo dando loro distanza a-sociale. Mi perdonerete se non uso il neologismo “distanziamento”, ma l’italiano ha già una parola per indicare la distanza (ed è “distanza”).

Invece di dare loro un ambiente accogliente, diamo loro un ambiente spoglio. Invece di contatto e rassicurazione, diamo loro distanza e solitudine. Vietata la prossimità e la solidarietà, considerato che non è possibile passarsi la penna o scambiarsi la merendina. Cos’altro? Ah, si: la maestra (che dovrebbe essere una vice-mamma) non passa nemmeno tra i banchi. L’altro non è fonte di gioia, sicurezza, calore e rassicurazione: è fonte di pericolo, malattia, morte.

E la cosa più assurda è che, una volta usciti di scuola, tutte queste regole non ci sono più: possono (grazie a Dio) giocare, fare gruppo, stare vicini. Che senso ha tutto questo?

D’accordo, non è tutto chiaro, a proposito di questa epidemia: ci sono molti punti oscuri che ne riguardano anche la gestione. Una cosa, però, mi sembra abbastanza chiara: non stiamo facendo un favore ai nostri bambini. Non so dire quali conseguenze avranno le misure di prevenzione scolastica sulle nuove generazioni: stiamo assistendo a qualcosa che, così mi pare, non ha precedenti né pari nella storia dell’umanità. Però possiamo ipotizzare che non ne verrà nulla di buono. Forse stiamo preparando quella che tutti i media chiamano «la nuova normalità» e che ancora non abbiamo ben chiaro di come sia. Una cosa, però, la possiamo ipotizzare: non sarà nulla di buono.

 
Fonte: Rivista Notizie Pro Vita & Famiglia, n. 92, gennaio 2021
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