27/03/2019

Se l’aborto è affare esclusivo delle donne...

Il fatto: contea di Madison, Stato dell’Alabama; a inizio del 2017 una ragazza scopre di essere incinta, condivide la notizia con il fidanzato e al tempo stesso fissa un appuntamento presso una clinica per ottenere l’aborto. Lui, Ryan Magers, la implora di non farlo, ma non riesce a fermarla. La ragazza si reca all’Alabama Women’s Center dove, tramite aborto farmacologico, pone fine alla vita del bambino (di circa 6 settimane). Una storia come tante, ahinoi, almeno fino a questo punto. Chissà quanti padri, dalla legalizzazione dell’aborto, sono stati letteralmente privati del proprio figlio nel nome della più becera autodeterminazione femminista. La stessa 194, si sa, esclude totalmente il padre del concepito dalla procedura di richiesta dell’aborto: se la madre vuole, può perfino fare in modo che lui non venga mai a sapere della gravidanza, e cioè di aver messo al mondo un figlio che non vedrà mai la luce.

Sembra già di sentire l’obiezione stizzita di chi punta il dito contro quegli uomini che, venuti a conoscenza di essere padri, se ne infischiano e abbandonano donna e bambino; o quelli che, senza arrivare a tanto, indicano candidamente l’aborto come soluzione. “Sono sicuramente la maggioranza!”; “Di questi non parlate?”; “Siete buoni solo a sparare sulle donne!”, ecc. ecc. Ora, se siano la maggioranza non lo sappiamo, ma di questi smidollati, che a chiamare uomini ci vuole fantasia, abbiamo parlato in altre occasioni, mettendo anche in luce, ad esempio, il ruolo maschile nella legalizzazione dell’aborto in America. Qui ci vogliamo soffermare su quegli uomini che, divenuti papà, vorrebbero rimanerlo e veder crescere i propri figli; e invece se li vedono sottrarre dalla complicità più contro-natura che esista in proposito: quella madre-medico.

A questi uomini ha voluto dare voce Ryan, il ragazzo di questa vicenda, che, inascoltato da “lei”, ha assistito impotente all’aborto di suo figlio con l’avallo legislativo, proprio come sarebbe accaduto da noi. La differenza, però, rispetto al nostro ordinamento giuridico, è data dal fatto che il sistema giurisdizionale dell’Alabama riconosce il concepito come “persona”, con diritti soggettivi che il padre ha deciso di rappresentare e difendere: Ryan, infatti, ha intentato causa contro la clinica e la casa farmaceutica che ha fornito il farmaco abortivo. Ciò è stato possibile grazie a un caso che nel 2013 ha fatto approdare lo Stato dell’Alabama a una sentenza significativa: una donna, che aveva assunto sostanze stupefacenti in gravidanza, provocò la nascita prematura del figlio seguita, dopo soli 19 minuti, dalla sua morte per intossicazione da metanfetamine. La Corte ha riconosciuto l’evento come vero delitto, stante «il diffuso riconoscimento giuridico che i bambini non ancora nati sono persone con diritti che dovrebbero essere protetti dalla legge» (se ne deduce che Roe vs Wade è giudicata un’anomalia del sistema, come è stato ammesso anche più di recente).

Su queste basi, ciò che si sviluppa ora è il tentativo di Ryan, in qualità di padre e rappresentante del nascituro ucciso, di ottenere una condanna dei responsabili dell’aborto per aver provocato la «morte ingiusta» («wrongful death» negli atti) del piccolo “Baby Roe”. L’assurdità di una simile normativa – statunitense ma non solo – ammette quindi la possibilità di giudicare “ingiusto” l’aborto non in se stesso, in quanto omicidio dell’innocente, bensì nel momento in cui il bambino è “;voluto”. La clinica, pertanto, non avrebbe dovuto procedere senza il consenso del padre. Questa sembra essere la linea sperimentata dai legali di Magers e, per quanto folle sul piano logico ed etico, è l’unica via percorribile sul piano giuridico, all’interno di quella gigantesca fucina di contraddizioni che è la democrazia degli Stati Uniti d’America.

Oltreoceano, almeno, c’è già qualche margine per tentare di scardinare il sistema. Qui da noi, invece, a chiamare “;persona” il concepito si rischia il linciaggio. Esattamente come a dire che  un bambino è anche figlio di suo padre. E allora, in attesa di tempi migliori, auguri a Ryan. La sua battaglia è anche la nostra.

Vincenzo Gubitosi

Fonte: Aleteia

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