17/05/2019

Omofobia: la vera violenza dov’è?

Nella Giornata Mondiale contro l’Omofobia fioccano i proclami e le testimonianze per un “mondo più civile”. Nemmeno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è astenuto dal condannare «gli inammissibili e dolorosi episodi di aggressività e intolleranza» contro omosessuali e transessuali, sollecitando un «impegno deciso e costante per le istituzioni e per ciascuno di noi». Parole perfettamente in linea con la volontà delle lobby di mantenere costante l’attenzione mediatica sul tema. Di omofobia è importante parlare costantemente, a tutti i livelli e in tutti i canali possibili, dalla televisione alla scuola, dai luoghi di lavoro alla sanità.

Ancora più incisivo e penetrante diventa il messaggio, quando viene veicolato in prima persona da rappresentanti del mondo Lgbt. Lo ha fatto un paio di settimane fa Vladimir Luxuria, raccontando a Mattino 5 un drammatico episodio della sua gioventù. Intorno ai vent’anni, l’artista, al secolo Vladimiro Guadagno, non ancora travestito né transessuale, ma già esplicitamente gay, fu insultato e picchiato da un gruppo di giovani a bordo della metropolitana, senza che nessun passeggero intervenisse. «Mi fecero male i cazzotti e anche l’indifferenza della gente che continuava a guardare altrove come se non stesse accadendo nulla», ha dichiarato Luxuria alla trasmissione di Barbara D’Urso, mostrando poi una foto scattata dopo l’aggressione. «Non mi vergogno di mostrarvi la barba e i lividi che avevo allora: li ho superati entrambi», ha aggiunto, concludendo: «Non ho mai voluto restituire questo odio».

Una delle parole chiave nelle campagne anti-omofobia è proprio “odio”. E l’odio è sempre esecrabile, qualunque sia la persona cui è rivolto. Gli episodi di aggressione contro omosessuali, bisessuali e transessuali sono sempre da condannare. Eppure c’è più di un “ma”. È davvero costruttivo ripetere ossessivamente il mantra dell’omofobia dilagante? Davvero lo spazio riservato mediaticamente al fenomeno corrisponde alla sua reale entità? Ma soprattutto: siamo proprio sicuri che queste campagne siano finalizzate soltanto a dire no alla violenza e non sconfinino nel tema dei presunti “diritti” negati al matrimonio e alla genitorialità?

Tale confine è davvero molto labile e viene frequentemente violato. Ne è la prova il fatto che le organizzazioni Lgbt e i politici che le appoggiano sono le stesse che promuovono l’una e l’altra causa. Non si è mai visto un paladino dell’antiomofobia che non fosse anche favorevole al matrimonio egualitario e, in molti casi, anche all’utero in affitto e ad altre discutibili pratiche.

Ultimo ma non ultimo: nella logica degli attivisti Lgbt, il concetto di violenza sembra essere tutt’altro che universale, essendo circoscritto alla loro categoria e a poco altro. Esporre bambini anche molto piccoli a immagini e contenuti didattici finalizzati a normalizzare la teoria del gender, l’omogenitorialità e la fecondazione assistita in tutte le forme lecite e illecite, non è anche quella una forma di violenza? O, al contrario, il minore ha diritto a non diventare oggetto di una ipesessualizzazione precoce che, in fondo, torna a vantaggio esclusivamente di certi adulti? Strappare i bambini alle madri surrogate è un atto violento e lecito? Se anche la comunità Lgbt prendesse sul serio queste domande, le sue campagne contro l’omofobia assumerebbero una maggiore credibilità.

Luca Marcolivio

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